L’11 aprile a Forlì si è svolto il secondo incontro intitolato “competenze del futuro e persone al centro”. a seguire un estratto dai contributi di Alessandra Lanza e Stefano Molina, che sono intervenuti sul tema.
Estratti dai contributi di Stefano Molina e Alessandra Lanza
Estratto del contributo di stefano molina – dirigente di ricerca fondazione agnelli
Uomo e macchina: dialogo o competizione?
Di fronte alla richiesta di brevetto presentata da un certo William Lee per un nuovo telaio in grado di produrre calze da donna, Elisabetta oppose un fermo rifiuto: la regina era preoccupata degli effetti negativi prodotti da quella macchina sull’occupazione delle sue magliaie. Correva l’anno 1589.
Questo aneddoto è interessante per almeno due motivi. Innanzitutto dimostra come la questione della “disoccupazione tecnologica” – ossia la riduzione della quantità di lavoro impiegata per unità di prodotto a seguito dell’introduzione di macchinari e impianti nel processo produttivo – non sia recente, ma preceda di diversi secoli la sua nota teorizzazione da parte di John Maynard Keynes (1933).
Secondo: la semplice disponibilità di un’innovazione tecnologica, per quanto efficiente possa essere, non produce automaticamente effetti sull’occupazione. Servono anche altre condizioni di contesto, quali il calcolo di convenienza e la conseguente decisione da parte di un imprenditore di adottare l’innovazione, e il superamento delle inevitabili resistenze di natura politica e sociale alla sostituzione del lavoro umano con macchine.
Anche per questo motivo non è facile prevedere, una volta messe a fuoco le presumibili direzioni di sviluppo dell’innovazione, quali potranno essere i mutamenti occupazionali dei prossimi decenni. Osservando il passato possiamo affermare con certezza che la diffusione della videoscrittura, ad esempio, ha fatto sparire i compositori linotipisti delle tipografie e pure moltissime segretarie e stenodattilografe.
Ma quali effetti occupazionali potranno discendere dal ricorso ai droni attualmente sperimentati per la logistica? E quali mestieri potrebbero venir meno a seguito della commercializzazione di automobili a guida autonoma, oggetto di collaborazione tra Google e FCA?
Intorno a simili interrogativi e alle speranze/paure da essi suscitate si è sviluppata un’ampia letteratura, a cavallo tra approccio scientifico e futurologia. Un recente studio di Carl B. Frey e Michael A. Osborne dell’Università di Oxford dedicato al futuro dell’occupazione può rivelarsi un utile strumento di orientamento.
Gli autori partono dalla suddivisione del lavoro proposta da Autor e altri (2003) e basata su una matrice due per due: su un primo asse si distribuiscono i lavori routinari/non routinari, sul secondo quelli manuali/intellettuali. Storicamente la sostituzione del lavoro dell’uomo da parte delle macchine ha riguardato un solo quadrante: quello dei lavori manuali e routinari, ossia quelli che potevano essere facilmente oggetto di programmazione in quanto definibili da un insieme semplice e prevedibile di regole.
I recenti sviluppi tecnologici stanno però rendendo “informatizzabili” anche compiti presenti negli altri quadranti e sino a ieri ritenuti al riparo dalla concorrenza delle macchine: sia compiti impegnativi fisicamente e non routinari, quali ad esempio, la guida di mezzi pesanti; sia compiti intellettuali, quali il riconoscimento di testi manoscritti (ad esempio le firme sugli assegni), la ricerca di sentenze in campo legale o la lettura di esami radiologici per la formulazione di diagnosi mediche. In questo contesto di crescente scalabilità del lavoro umano da parte delle macchine – con rapidissimi progressi nel campo della robotica, dell’intelligenza artificiale e nell’uso dei big > data per la correzione degli errori in mansioni non routinarie – quali lavori saranno ancora al riparo dalla concorrenza nel 2030?
Secondo gli autori dello studio citato vi sono tre tipologie di compiti ancora decisamente proibitivi per le macchine, almeno sull’arco dei prossimi due decenni:
– i compiti che implicano una notevole sensibilità percettiva, in particolare tattile, e una grande precisione nel manipolare gli oggetti;
– i compiti che richiedono intelligenza creativa, ossia la capacità di avere idee originali e brillanti per affrontare una determinata situazione o per risolvere un dato problema;
– i compiti che richiedono intelligenza sociale, ossia capacità di interagire con persone tenendo anche conto della loro sfera emotiva, per finalità negoziali, di persuasione, di conforto ecc. (…)
Dalla combinazione di queste tre tipologie, gli autori sono stati in grado di calcolare una probabilità di informatizzazione per 702 professioni. Nella tabella qualche esempio. (…)
È bene ribadire quanto accennato in apertura di paragrafo e cioè che un’elevata esposizione al rischio di informatizzazione non implica automaticamente la sostituzione del lavoro umano: questa dipenderà anche da fattori che lo studio non prende in considerazione, quali i prezzi relativi del lavoro e del capitale, gli incentivi/disincentivi fiscali (si pensi, ad esempio, alla proposta di Bill Gates di introdurre una tassa sui robot), gli orientamenti della politica (le macchine non votano), le resistenze legittime dei lavoratori direttamente interessati e il loro grado di sindacalizzazione. Ma indipendentemente dalla rapidità e dalla estensione della loro effettiva realizzazione, i meccanismi illustrati continueranno a esercitare un’importante pressione sui mercati del lavoro, compreso quello italiano.
Estratto del contributo di alessandra lanza, partner prometeia
Investire sulle persone
Se una tra le tante ragioni della scarsa competitività del sistema Italia è il basso livello delle competenze della forza lavoro, proprio questo può essere un punto di partenza per recuperare terreno nei confronti dei competitor. Il ritorno economico dell’investimento in formazione delle risorse umane è infatti decisamente elevato e, da questo punto di vista, la bassissima propensione alla mobilità “job-to-job” della popolazione lavorativa italiana, da vincolo alla crescita, può trasformarsi in un ulteriore incentivo alle imprese per investire nel proprio capitale umano.
Peraltro, il circolo virtuoso che si innesterebbe tra miglioramento delle competenze individuali, incremento della produttività e livello dei salari (specie se accompagnato da una riduzione del carico fiscale) potrebbe costituire un volano di attrazione per le risorse umane skilled provenienti dall’estero.
Ovviamente questo è solo un esempio di come le molteplici difficoltà che caratterizzano il sistema produttivo italiano possano rappresentare, se adeguatamente affrontate, un possibile trampolino di sviluppo: rispetto alla semplice leva del basso costo del lavoro esistono infatti molte altre strade che le imprese italiane potrebbero percorrere, molto più consone a un manifatturiero il cui obiettivo è ambire alle prime posizioni in Europa in termini di sviluppo.
L’adozione di tecnologie informatiche e digitali è una di queste. Per rendersene conto basti pensare che solo l’8% delle imprese italiane è attrezzata per ricevere ordinativi via internet, mentre questa soglia in Germania raggiunge il 22%. Gli ordinativi via internet superano il 6% del totale per le imprese tedesche, percentuale che invece, per le imprese italiane, si attesta poco sopra al 2%. Ancora, mentre l’87% delle imprese tedesche possiede un sito internet, solo il 71% di quelle italiane ha raggiunto questo “obiettivo”.
Il quadro è relativamente più confortante per quanto riguarda l’adozione dei principali standard informatici e digitali, ma anche qui rimangono dei gap da colmare nei confronti delle principali economie europee: più in generale, l’adozione di strumenti tecnologici moderni, e lo sfruttamento dei canali di informazione digitale, rappresentano un possibile terreno di rincorsa per le imprese italiane nel panorama competitivo internazionale.
Un altro ambito su cui le imprese italiane possono investire risorse con l’obiettivo di migliorare la propria performance riguarda la qualità del management. Statisticamente, ad una maggiore qualità della gestione aziendale è infatti associato un miglioramento complessivo della performance, in termini sia di fatturato, sia di margini e quote di mercato.
Al di là dell’età media relativamente più elevata – che rispecchia a grandi linee quella della popolazione complessiva – i risultati dell’ultima “World Management Survey” segnalano > come i manager italiani siano mediamente sotto-performanti in tutte le principali aree di indagine, superando solo quelli spagnoli nella classifica dei principali competitor europei.
Favorire il ringiovanimento del “parco” manager italiano, sostenendo l’accesso di risorse più giovani e, quindi, più propense all’adozione di tecnologie di gestione moderne, è uno dei possibili strumenti con cui le imprese potrebbero migliorare la performance complessiva, con effetti di spillover di cui potrebbe beneficiare l’intero sistema produttivo italiano.
Il tema del management non si declina peraltro solo sulla qualità o l’età delle risorse che rivestono ruoli dirigenziali, ma anche sulla provenienza (interne o esterne alla famiglia proprietaria) delle stesse.
Normalmente una guida “esterna” tende infatti ad essere più flessibile e reattiva nell’apportare cambiamenti, più propensa all’innovazione e all’esplorazione di nuove strategie, caratteristiche importanti soprattutto in un ambiente competitivo complesso in cui i fattori che condizionano il successo (concorrenti, mercati, tecnologie, etc.) sono sempre più in rapido mutamento. Questa interpretazione trova supporto analizzando più in dettaglio la relazione tra dimensione settoriale e forma di governance all’interno del comparto manifatturiero.
Non è quindi un caso se tra i settori dell’industria italiana a maggiore vocazione manageriale esterna si annoverano quelli più innovativi e, al tempo stesso, quelli dalle produzioni più tradizionali vedono prevalere nei ruoli dirigenziali/gestionali figure interne alla proprietà. La relazione positiva che lega la provenienza del management alla performance trova ulteriore supporto nell’analisi econometrica: una ricerca di Prometeia stima il “premio” alla managerialità esterna in un differenziale di performance, per il totale economia, del 2,4% per il fatturato, del 2,6% per l’occupazione e dello 0,9% per la produttività (in termini di crescita media annua tra il 2000 e il 2013).