di Giuseppe Ponzi, Amministratore Project Srl
Recentemente le criptovalute, e la più nota di queste il Bitcoin, si sono poste all’attenzione dei media e degli operatori per le strabilianti ed altalenanti performance. La prima differenza evidente con le valute tradizionali risiede nel fatto che un’autorità monetaria ne garantisce il valore, la validità e lo scambio tra operatori. Nelle criptovalute non vi è alcuna autorità a garanzia delle operazioni di scambio della valuta, ma solo la partecipazione consensuale ad un processo costitutivo. Ogni operazione effettuata deve essere confermata, infatti, da tutti i nodi della rete attraverso i meccanismi di scambio delle chiavi a crittografia, che verificano l’insieme dei dati e il relativo slot usato per firmare le transazioni, accertando e garantendo l’identità digitale di chi le ha autorizzate.
Ciò sembrerebbe rendere i sistemi blockchain utili per la gestione di sistemi di monetica e pagamenti elettronici, ma anche idonei per molte altre applicazioni quali, ad esempio, la registrazione di eventi in modalità non ripudiabile, la gestione delle identità, l’elaborazione di transazioni sicure, la documentazione della provenienza o della tracciabilità dei dati. Questa operazione richiede però una grande capacità elaborativa e molta energia ed è ripagata con una fee per chi la effettua. Come il prezzo di un metallo è il risultato di sforzi crescenti di prospezione ed estrazione in località remote nelle viscere della terra, allo stesso modo una creazione virtuale come il bitcoin richiede sempre maggiore potenza di calcolo, alimentata da crescenti quantità di energia in località remote in Europa ed Asia.
Questa soluzione tecnologica sembra quindi eccellente in termini di sicurezza e democraticità. In realtà, a mio avviso, non è proprio così. Oggi assistiamo a un fenomeno sempre più preoccupante, ovvero la crescita esplosiva del criptomining abusivo. Si calcola che nel mondo un’azienda su cinque sia colpita dagli hacker, che sfruttano la potenza di calcolo dei computer per generare criptovalute all’insaputa delle vittime. Applicando questa tecnologia si apre una questione determinante e cioè il valore attribuito alla criptovaluta nel momento in cui c’è lo scambio, che viene certificato dal sistema tecnologico della blockchain. Ma da cosa è stabilito il valore della moneta? Semplicemente dal baratto che si effettua in quel momento; non vi è autorità che lo possa determinare, ma è una semplice promessa del valore. Cosa comporta questo? Un’altalena del valore, un cerino in mano agli ultimi della catena che stanno scommettendo su un valore della criptovaluta. Questa catena, su cui moltissimi stanno operando, ha un limite tecnologico oltre il quale la blockchain non potrà andare se non richiedendo enormi capacità di calcolo a oggi non disponibili. E che altro è questo se non un’evoluta catena di Sant’Antonio? La tecnologia blockchain, distinta dalla criptovaluta, potrebbe essere utilizzata per tante altre attività, ma non offre alcuna garanzia per le valute. Per quanto riguarda poi i pagamenti in criptovalute, anche qui vi sono non pochi problemi, ma il più rilevante è di nuovo la fluttuazione in lassi di tempo brevissimi. Concordare una vendita di un prodotto in bitcoin espone al rischio di avere una perdita rilevante in un tempo praticamente nullo. Meglio operare in valute tradizionali. A meno che non piaccia scommettere e questo è certamente un modo per farlo!