La prima cosa da dire in materia di relazioni industriali e di riforma del mercato lavoro è che anche queste sono leve per contribuire al recupero di competitività delle nostre imprese.
Recuperare competitività è imperativo per uscire dalla crisi ed è il solo modo reale per cogliere i segnali di risveglio dell’interesse per l’Europa e per l’Italia da parte degli investitori internazionali. I punti essenziali sono costo del lavoro, rapporti con il sindacato, mercato del lavoro.
Retribuzioni, costo del lavoro, competitività
In termini di costi unitari del lavoro tra il 2000 e il 2013 abbiamo accumulato un differenziale enorme rispetto alla Germania: tra il 2000 e il 2013 il Clup medio del settore manifatturiero italiano è cresciuto del 36%, in Germania, anche tenendo conto del rialzo degli ultimi 2-3 anni, nel complesso del periodo il Clup è diminuito di circa il 4% e tra il 2000 e il 2007 la riduzione aveva toccato il -16%.
L’altra cosa da notare è che negli ultimi anni, alcuni paesi europei, come la Spagna, sono riusciti ad operare un aggiustamento dei costi unitari.
Questa forbice è dovuta a un divario di dinamica della produttività e delle retribuzioni.
Migliorare la produttività richiede robusti investimenti e un miglior collegamento tra dinamica delle retribuzioni e risultati aziendali.
Il problema non è tanto che abbiamo avuto una crescita in assoluto fuori misura delle retribuzioni. Nel complesso del periodo 2000-2013, infatti, la crescita delle retribuzioni reali in Italia è stata di +10% in 13 anni, di qualche punto superiore alla Germania (+7,5%) e inferiore a quella registrata in Spagna (+17,5%). Il punto è che in alcuni momenti la dinamica retributiva
in Italia è risultata incoerente con il contesto economico. Ad esempio nel 2010 e 2011 sia in Germania che in Spagna all’accentuarsi in Europa della crisi economica internazionale si è anche operato un aggiustamento verso il basso del livello delle retribuzioni reali, non così in Italia.
Inoltre, la dinamica delle retribuzioni tedesche è stata sempre inferiore a quella della produttività e non pari o leggermente superiore come è accaduto in Italia.
Su questo punto dobbiamo impegnare i nostri interlocutori a cambiare in profondità logiche e comportamenti. Non possiamo continuare ad avere una dinamica delle retribuzioni del tutto avulsa dagli andamenti dell’economia e, soprattutto, dalle dinamiche della produttività.
Dobbiamo creare il legame virtuoso fra retribuzioni e produttività, rafforzando quindi il ruolo della contrattazione aziendale, perché è solo in azienda che si crea – e si può oggettivamente misurare – la produttività.
Per questo è necessario confrontarci con il sindacato per cambiare l’asse della contrattazione e con il governo perché si preveda strutturalmente detassazione e decontribuzione delle erogazioni salariali di produttività.
E dobbiamo anche lavorare perché si arrivi a riconoscere il beneficio contributivo e fiscale al salario di produttività anche se questo non origina dalla negoziazione, ma è frutto di una scelta unilaterale del datore di lavoro.
Anche una riduzione del cuneo fiscale aiuterebbe a diminuire il costo del lavoro senza comprimere le retribuzioni nette. Dobbiamo però tendere a questo obiettivo. E lavorare almeno sul margine, defiscalizzando le erogazioni incrementali legate alla produttività.
Il confronto con il sindacato
Confindustria ha investito molto in questi anni nel rapporto con i sindacati. Ma non vogliamo
ridurre tutte le relazioni dentro i luoghi di lavoro alla sola dimensione della contrattazione.
Il nostro fine è la competitività delle imprese, che non è di per sé garantita dalla contrattazione, soprattutto se questa è fine a se stessa. La contrattazione, infatti, è un valore solo se crea maggiore ricchezza per l’impresa e per le persone che vi lavorano. Dobbiamo, ribadisco, favorire la contrattazione aziendale virtuosa, che lega, cioè, i salari ai risultati di redditività e produttività.
In questo senso ci muoveremo nel confronto che intendiamo avviare con i sindacati perché anche su questi temi c’è tra gli imprenditori la percezione netta e diffusa della necessità di avviare un cambiamento deciso di rotta.
Con Cgil, Cisl e Uil: dobbiamo dare attuazione ai principi fissati nel testo unico sulla rappresentanza del 10 gennaio 2014, ottenendo le necessarie collaborazioni da parte del Ministero del lavoro, dell’Inps e del Cnel; dobbiamo definire un nuovo accordo interconfederale sulla contrattazione collettiva, in coerenza con il documento approvato dal consiglio Direttivo di Confindustria.
L’obiettivo è ottenere, dopo la derogabilità normativa, la derogabilità economica del ccnl ad opera del contratto aziendale per evitare sommatoria di costi.
Per affrontare in modo coeso questi confronti impegnativi, Confindustria dovrà rafforzare il coordinamento contrattuale che esercita nei confronti delle federazioni di categoria impegnate nei rinnovi contrattuali. Dobbiamo avviare un Forum della contrattazione collettiva per favorire il confronto e lo scambio delle migliori prassi. Su questi temi incide la dichiarata intenzione del governo di introdurre un salario minimo legale che occorrerà seguire, quindi, con grande attenzione.
Mercato del lavoro
Sul tema del lavoro il governo ha dato prova di rapidità e coraggio, segni chiari di volontà di cambiare. Ora occorre che il Parlamento confermi questa scelta dando credito alla volontà riformista contenuta nel disegno di legge delega.
Non è certo la legge a creare occupazione, ma gli interventi sui contratti a termine, la legge delega di riforma del mercato del lavoro sono segnali importanti verso un mercato regolato in maniera più moderna.
Il prossimo passo dovrebbe essere rendere più conveniente il contratto a tempo indeterminato. Le aziende tendono sempre più a scegliere forme contrattuali che privilegiano la flessibilità rispetto al contratto a tempo indeterminato, percepito come troppo rigido e costoso.
Molti lamentano che c’è nel paese un grande alto tasso di precarietà. La Cgil, in particolare, contesta la riforma sui contratti a termine e chiede di tornare indietro alle “causali”. Sarebbe un errore fatale che ci allontanerebbe ancora di più dall’Europa e dai nostri competitor.
Le aziende industriali non cercano lavoratori “precari”.
Le aziende oggi hanno processi produttivi sofisticati e devono poter programmare. I contratti a termine costituiscono comunque una seconda scelta, che risolve i problemi delle fluttuazioni di mercato nell’immediato, ma alle imprese serve anche costruire un rapporto di lungo termine con i lavoratori.
Per fare questo non abbiamo bisogno di nuove tipologie contrattuali e neppure di introdurre contratti che – solo per effetto del semplice scorrere del tempo – accrescono le tutele. Bisogna piuttosto lavorare sul contratto a tempo indeterminato per renderlo meno costoso e più flessibile.
Un esempio di quello che intendo dire è affidare interamente alla contrattazione la definizione delle mansioni, superando i limiti anacronistici, imposti dalla legge.
Un altro punto è modificare la disciplina dei licenziamenti individuali e collettivi, riservando la sanzione della reintegrazione solo ai casi gravi connotati da elementi di discriminazione.
Ammortizzatori sociali
Un intervento sul contratto a tempo indeterminato sarebbe agevolato da un’azione decisa a favore delle politiche attive, rifondando radicalmente i meccanismi che si occupano di far incontrare domanda e offerta.
Non bastano le politiche di sostegno al reddito dei lavoratori, le uniche su cui l’Italia ha finora messo risorse. Perché il mercato sia dinamico bisogna assicurare azioni efficaci per la formazione e il ricollocamento dei lavoratori. Non possiamo affrontare le sfide che ci attendono solo mettendo in campo azioni di difesa “passiva”. Occorre cambiare approccio nell’utilizzo degli ammortizzatori sociali.
L’obiettivo deve essere consentire alle imprese di reagire più rapidamente alle difficoltà affrontando processi di ristrutturazione con maggiore velocità; nel contempo dobbiamo costruire le condizioni per l’occupazione dei giovani e degli anziani. A regime servono due soli ammortizzatori universali, obbligatori: la cassa integrazione guadagni, per affrontare crisi nelle quali è prevedibile una ripresa dell’attività e l’Aspi per coloro che hanno perso il lavoro e sono attivamente alla ricerca di nuova occupazione. Razionalizzando gli strumenti si darà slancio alle politiche attive e si potranno ridurre gli oneri a carico delle imprese.
Nel periodo transitorio, appare necessario cercare di conciliare la drammatica condizione dei giovani, i tempi di aggiustamento delle imprese rispetto all’invecchiamento attivo e le code di questa lunga crisi. Occorre pertanto riflettere sull’opportunità di un ritorno a età flessibili di pensionamento – con equivalenza attuariale della prestazione pensionistica – senza però cedere alla tentazione di distruggere la riforma delle pensioni del governo Monti. Dobbiamo inoltre puntare su un diverso e più efficiente utilizzo delle risorse ora destinate agli ammortizzatori in deroga, che potrebbero essere orientate sia al finanziamento di un allungamento della durata dell’Aspi, sia a particolari ipotesi di allungamento della mobilità per i lavoratori prossimi alla maturazione dei requisiti pensionistici. È un esercizio di equilibrio. Sono altrettante sfide impegnative alle quali, però, non possiamo sottrarci.