La comunità degli imprenditori torna a riunirsi per le Assise generali di Confindustria. Perché ha scelto di convocarle?
In una stagione delicata come questa, le Assise rappresentano un grande momento di mobilitazione del sistema confindustriale italiano. Dopo aver promosso la politica dei fattori, siamo pronti a inaugurare la stagione delle mission puntando su tre obiettivi principali – lavoro, crescita e riduzione del debito – all’interno di un piano di medio termine che sottoporremo a tutti i partiti. Lo faremo con la passione che contraddistingue la nostra idea di rappresentanza: di una Confindustria, cioè, che vuole essere ponte tra gli interessi delle imprese e quelli del Paese.
Qual è il ruolo che gli imprenditori sono chiamati ad assumere nei confronti del Paese?
Dietro il pensiero economico di Confindustria c’è un’idea di società aperta e inclusiva, che metta al centro il lavoro soprattutto giovanile. L’idea di un’Italia che ha voglia di partecipare, proporre, reagire. La nostra sarà una chiamata alla corresponsabilità nel tentativo di superare, anche, la diffusa cultura anti-industriale con la quale dobbiamo fare i conti. Confindustria propone azioni specifiche e, innanzitutto, un vero e proprio modo di essere per fare finalmente sistema superando vincoli e divisioni ideologiche.
La campagna elettorale è in pieno svolgimento: molte le promesse di tagli alle tasse, limitato invece l’interesse verso i temi del lavoro e dell’impresa. Quali rischi intravede all’indomani delle elezioni politiche del 4 marzo?
La politica svolge sempre un ruolo chiave, è la funzione più delicata e importante per un Paese. Per questo ci auguriamo, e con le Assise ci proponiamo di renderlo il più chiaro possibile, che qualunque risultato uscirà dalle urne non si vorranno gettare al vento i progressi compiuti sull’economia reale e tornare indietro a un passato recente, dominato da ansietà e paura. Questo ci sembra il rischio principale da evitare. Le proposte finora ascoltate sono tutte degne di attenzione, ma dobbiamo fare i conti con le risorse e le coperture e, quindi, definire le priorità. Dovremmo tutti capire che è nostro interesse mettere al sicuro i conti pubblici e avviare una riduzione strutturale del debito prima che i tassi possano tornare a salire.
Con il debito pubblico che abbiamo non possiamo consentirci il lusso di innalzare il deficit.
E proprio per il debito pubblico altissimo, l’Italia deve misurarsi anche con un problema di credibilità internazionale. Quali garanzie può dare in sede europea?
La garanzia dei numeri: nonostante le molte criticità che il Paese deve scontare, che migliaia di nostri associati ci hanno ricordato durante le pre-assise – burocrazia farraginosa, lentezza della giustizia, elevato costo dell’energia, deficit infrastrutturale, fisco esoso, per fare qualche esempio – l’Italia è e resta la seconda manifattura europea dopo la Germania.
Vantiamo un tessuto imprenditoriale forte e diffuso e i nostri partner europei lo sanno bene. Nonostante l’inversione di tendenza dobbiamo però considerare che la nostra economia è fragile e condizionata dal debito pubblico di cui abbiamo parlato. Non possiamo perciò meravigliarci dei richiami che ci vengono fatti al rispetto delle regole e dei parametri. Accanto alle preoccupazioni per la stabilità dovremo tuttavia mettere più enfasi sulle politiche per la crescita – precondizione per il lavoro e non un fine – come ritengono anche i nostri interlocutori tedeschi e francesi con i quali abbiamo avviato una fertile stagione di confronti. Le infrastrutture, in particolare, devono essere parte di un progetto teso a connettere il Paese al proprio interno e con il mondo esterno per un’Italia non periferia d’Europa, ma ponte tra Europa e Mediterraneo, est ed ovest, perché le vie della seta possano funzionare non solo in entrata, ma anche in uscita.
Quali sono le riforme che hanno portato maggiore beneficio al Paese e che sarebbe un errore interrompere?
È evidente che il combinato disposto del Jobs Act e del piano Industria 4.0 stia dando degli effetti sull’economia reale che sono significativi. Lo testimoniano i numeri, che ci dicono che rispetto all’anno precedente ci sono stati un incremento del 30% degli investimenti privati in macchinari e un 7% di export in più. Dobbiamo sapere, però, che accanto ad imprese che vanno molto bene ci sono altre imprese, la maggior parte, che sono ancora in mezzo al guado e che dovremo saper traghettare sulla sponda sicura.
Per fare questo occorre che le misure di successo siano confermate e potenziate: abbiamo ancora molta produttività da recuperare ed è per questo che chiederemo, a chiunque sarà al governo, di insistere con coraggio sulle riforme dirette ad assecondare quella crescita che, sola, può condurre all’aumento dell’occupazione e alla riduzione del debito.
La disoccupazione, soprattutto giovanile, resta il problema forse più grave. Quali sono i percorsi che Confindustria propone?
Come dicevamo, per attivare la leva del lavoro e includere i tanti giovani che attendono di essere inseriti, non c’è altro modo che puntare a crescere in modo stabile recuperando ampi spazi di produttività. Solo così potremo mettere in moto il circolo virtuoso dell’economia: più investimenti, più produttività, più crescita, più occupazione, più domanda. Dovremo farlo a partire dalle nostre fabbriche, legando l’aumento dei salari agli incrementi di produttività che saremo capaci di realizzare e potendo contare su un’adeguata politica fiscale.
Nella consapevolezza che la crescita è la precondizione per realizzare condizioni di lavoro dignitose nel Paese.
E quali sono le policy che potrebbero attenuare, e in prospettiva risolvere, il gap fra domanda e offerta di lavoro che le imprese registrano, soprattutto in un momento di così profonda innovazione?
Dovremo impegnarci in un grande piano di formazione per i lavoratori, nel privato e nel pubblico, e a favore dei giovani attraverso il potenziamento degli Its e dei rapporti con l’Università. Un’adeguata formazione sarà la “clausola di salvaguardia” del nostro futuro, non solo in ottica di impresa ma di società in generale. E dovremo fare attenzione a non determinare un secondo divario tra imprese e Pubblica amministrazione perché la formazione e il recupero di produttività dovrà riguardare anche gli uffici pubblici, dove ci auguriamo ci sarà un’analoga evoluzione.
Non vorremmo trovarci tra qualche anno con industrie 4.0 iper-avanzate dal punto di vista culturale e tecnologico e una Pubblica amministrazione arretrata e incapace d’interpretare la modernità.