La pandemia ha causato una forte domanda di materie prime, input intermedi e servizi logistici – molto sostenuta anche prima dei lockdown – che ha superato l’offerta disponibile. Lo squilibrio risultante ha portato a prezzi crescenti in modo molto rapido e a ritardi nelle consegne. Ciò ha messo sotto pressione le catene di approvvigionamento, causando colli di bottiglia che sorgono quando la domanda di un input di produzione a monte supera improvvisamente e significativamente la quantità massima che può essere prodotta e consegnata. Questi colli bottiglia si sono rivelati molto più persistenti del previsto, pesando sull’attività economica e al tempo stesso contribuendo a un’accelerazione dell’inflazione ben oltre gli obiettivi delle banche centrali. Per le materie prime, i prezzi sono aumentati bruscamente quando sono emerse carenze di input essenziali e la competizione tra imprese per assicurarsi le forniture è diventata più intensa.
Il settore manifatturiero è stato tra i più colpiti: i prezzi sono aumentati sostanzialmente per certi microchip per computer molto richiesti, costringendo alcuni clienti – per esempio, i produttori di automobili e di beni elettronici – ad arrestare la produzione e/o a costituire scorte precauzionali per mantenerla a livelli adeguati. Un fattore che può aver amplificato la gravità dei colli di bottiglia è la struttura “snella” delle catene di approvvigionamento, che negli ultimi decenni hanno dato priorità più all’efficienza e alla compressione dei costi che alla resilienza. Queste intricate reti di produzione erano viste come una virtù in tempi normali, ma sono diventate un propagatore di shock durante la pandemia. La loro complessità le ha rese difficili da riparare, portando a persistenti squilibri tra domanda e offerta.
L’elemento geopolitico è molto importante in questo contesto. La catena di dipendenza che lega la Russia al mondo si è rafforzata negli anni, almeno fino al conflitto in Ucraina. La Russia è al primo, secondo e terzo posto, rispettivamente, tra gli esportatori mondiali di gas naturale, petrolio e carbone. L’Europa ottiene la maggior parte dell’energia dal suo vicino orientale. La Russia rappresenta anche la metà delle importazioni di uranio degli Stati Uniti; fornisce un decimo dell’alluminio e del rame del mondo; un quinto del nichel per batterie; e il suo dominio nel palladio, chiave nell’industria automobilistica ed elettronica, è ancora maggiore; è anche una fonte cruciale di grano e fertilizzanti.
I divieti che l’Occidente ha imposto alle esportazioni russe di materie prime hanno avuto un impatto molto significativo sia sul prezzo del petrolio (che solo recentemente è diminuito, anche a causa del rallentamento dell’economia globale) che su quello del gas, spingendo i contratti legati al prezzo all’ingrosso in Europa verso i massimi storici. Uno shock di tale profondità e ampiezza è senza precedenti.
Riequilibrare il mercato sembra quindi molto difficile senza una riduzione della domanda. Il modo meno doloroso potrebbe essere attraverso politiche che cercano di ridurre il consumo, come limiti al riscaldamento degli edifici o il razionamento dell’energia per uso industriale. Più probabilmente, il mercato si adeguerà all’impennata dei prezzi nel modo più doloroso, attraverso la “distruzione della domanda”: tagli autoimposti. Queste dinamiche sembrano già in corso. Da queste considerazioni segue che, dopo l’impennata iniziale, nel tempo l’inflazione di fondo (core) rallenterebbe perché l’aumento dei prezzi dell’energia distruggerebbe la domanda: l’impulso stagflazionistico, in seguito, diventerebbe disinflazionistico. Probabilmente ci stiamo avvicinando a questa fase.
Nonostante le interruzioni dell’offerta e l’inflazione elevata al momento persistano, i mercati finanziari sembrano scontare che presto si placheranno, lasciando l’inflazione ancora una volta vicina agli obiettivi delle banche centrali e permettendo la continuazione di tassi di interesse relativamente bassi (anche se in aumento rispetto ai minimi storici) ed esercitando un impatto minimo sull’attività economica. Questo scenario non sembra molto probabile. Le banche centrali hanno due scelte. Possono convivere con un’inflazione elevata, dato che gran parte di questa inflazione scaturisce dalle restrizioni dell’offerta e dai rincari delle materie prime. O possono inasprire le condizioni di finanziamento, spingendo l’economia verso una recessione – un policy mistake che non allevierebbe i colli di bottiglia, perché la politica monetaria può influenzare la domanda ma non può aggiustare l’offerta.
Più strutturalmente, l’inflazione potrebbe rivelarsi più alta rispetto al mondo in cui eravamo abituati a vivere prima della pandemia e dell’aumento delle tensioni geopolitiche. La transizione verso fonti energetiche più sostenibili potrebbe esercitare pressioni al rialzo sul prezzo di diversi metalli chiave e anche l’investimento richiesto, inizialmente, sarebbe inflazionistico. Catene di approvvigionamento più locali potrebbero risultare in inflazione più elevata. Fattori di lungo periodo fortemente disinflazionistici rimangono la forte innovazione tecnologica e l’automazione industriale, che tendono a comprimere i costi. Anche l’invecchiamento demografico potrebbe avere effetti disinflazionistici, per esempio incentivando la ricerca di soluzioni produttive efficienti e meccanizzando lavori manuali e/o ripetitivi.
Il punto importante, in questo contesto, è che non tutti i fattori suggeriscono bassa inflazione come prima della pandemia e del conflitto in Ucraina. Alcuni continuano a puntare in quella direzione, mentre altri suggeriscono inflazione più elevata rispetto a quella, bassissima, dei 10-15 anni che precedono il Covid-19, caratterizzati da politiche di austerità e processi di globalizzazione. Un’inflazione elevata, qualunque sia la ragione, potrebbe alimentare una spirale prezzi-salari. Una stretta monetaria significativa, tuttavia, potrebbe causare una recessione profonda. Ciò rende molto più difficile per le banche centrali normalizzare la politica monetaria e rende il trade-off tra crescita e inflazione piuttosto scomodo.
Sintesi dell’articolo pubblicato su RPE – Giugno 2022. Per scaricare il capitolo integrale cliccare qui
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Nota sull’autore
Daniele Antonucci è chief economist a Quintet Private Bank. Basato a Londra, è capo della ricerca e membro del comitato per gli investimenti. Daniele è stato chief euro area economist a Morgan Stanley. In precedenza, ha lavorato tra Regno Unito, Stati Uniti e Italia a Capital Economics, Merrill Lynch, Moody’s KMV e Confindustria.
Daniele è membro dell’ECB Shadow Council. Ha conseguito un master in economia alla Duke University, si è laureato all’Università di Roma “La Sapienza” e ha studiato all’EHSAL di Bruxelles.