Il settore alimentare rappresenta una colonna portante del manifatturiero italiano. Quali trasformazioni ha prodotto la crisi? Come si presenta oggi la filiera?
Con 140 miliardi di fatturato, il settore è il secondo del panorama manifatturiero italiano. Ma, fra i grandi settori industriali del Paese, esso è stato il primo, quanto a resilienza nel periodo della crisi. Ricordo che nell’ultimo decennio la produzione alimentare ha subito modeste erosioni, entro i 3 punti percentuali, e che nel 2018 essa ha superato il livello raggiunto nel lontano 2007, ultimo anno pre-crisi. La produzione industriale complessiva del Paese, invece, malgrado i recuperi recenti l’anno scorso è rimasta ancora sotto tale quota di 19 punti.
Questo periodo di crisi ha comportato comunque un forte fenomeno di sfoltimento e accorpamento nella grande fascia delle piccole aziende del settore. Basta dire che oggi l’universo aziendale di settore vede 55mila aziende, di cui 6.850 oltre i 9 addetti. Mentre quindici anni fa l’universo sfiorava le 70mila unità, con un numero di aziende più propriamente industriali, oltre i 9 addetti, analogo a quello attuale.
Aggiungo che i 57 miliardi di fatturato raggiunti dall’agricoltura italiana nel 2018 portano la filiera agroalimentare del Paese, sommando i 140 miliardi della trasformazione, a un livello complessivo prossimo ai 200 miliardi di euro, che pesa per oltre l’11% sul PIL del Paese.
I consumatori sono sempre più attenti in fatto di sicurezza. Come risponde l’industria alimentare italiana a questa richiesta?
Il tema della sicurezza degli alimenti è centrale e si articola su alcuni punti nodali. Li ricordo: il diritto dei consumatori a prodotti alimentari sicuri; la responsabilità dell’industria (e di tutti i soggetti che a diverso titolo operano lungo la food-chain) a garantire la sicurezza alimentare come prerequisito irrinunciabile; il dovere delle Istituzioni di assicurare regole adeguate e controlli efficaci, efficienti e sostenibili per gli operatori. Non da ultimo, infine, sottolineo il delicato ruolo dei media nell’informare correttamente l’opinione pubblica. Un ruolo interpretato spesso, purtroppo, in modo superficiale, prevenuto e demagogico.
La sicurezza e la qualità dei processi e dei prodotti alimentari sono il perno della strategia competitiva dell’industria alimentare italiana, per la quale non sono previste deroghe o eccezioni all’applicazione delle rigorose norme europee e nazionali in materia di sicurezza igienico-sanitaria. L’industria alimentare italiana investe imponenti risorse per garantire la sicurezza degli alimenti che i consumatori portano in tavola. Il 2% circa del fatturato dell’industria alimentare italiana – oltre 2,6 miliardi di euro – è impegnato ogni anno solo per garantire la sicurezza alimentare e gli standard di qualità dei prodotti.
Aggiungo che, in tema di sicurezza alimentare, l’Italia può contare su un sistema di eccellenza. Oltre all’impegno continuo degli operatori (un miliardo di autocontrolli l’anno), il settore è sottoposto a un sistema di controlli pubblici severo ed esteso. Sono oltre 720.000 le visite ispettive effettuate ogni anno nelle aziende (per controlli ufficiali su sicurezza e qualità dei prodotti) da parte delle autorità preposte (Asl, Nas, Icqrf, Istituti Zooprofilattici, Istituto Superiore di Sanità, Dogane, ecc.). Ad esse si aggiungono le attività di verifica permanenti da parte di 5.000 veterinari pubblici (il più alto numero in Europa), che assicurano presenza e controlli costanti negli impianti delle filiere zootecniche.
L’export è da sempre un punto di forza. Come migliorare la promozione all’estero?
L’export del settore è certamente un punto di forza. Tanto più a compensazione di un mercato interno che ha assistito a un taglio di dieci punti delle vendite alimentari in valori costanti, negli ultimi dieci anni: sette punti in più delle vendite totali del Paese.
Dal 2007, ultimo anno pre-crisi, l’export di settore ha segnato così un aumento del +81,7%, contro il +28,5% del totale industria. Ma esso deve ancora camminare parecchio. La proiezione export oriented, ovvero l’incidenza fatturato export/fatturato totale del settore, l’anno scorso è salita al 23,7%, ma è ancora lontana dal 35% medio del manifatturiero italiano e dalle proiezioni, in varia misura superiori alla nostra, del maggiori concorrenti continentali: Germania, Francia e Spagna.
D’altra parte, il tasso espansivo modesto del PIL 2019 del nostro primo sbocco, la Germania, rivisto in ribasso al +0,7%, appesantisce il contesto, anche se il panorama del commercio internazionale rimane positivo. La grande interconnessione delle economie mondiali sta facendo premio, per fortuna, sul clima innescato dalle misure daziarie americane e dalla guerra commerciale USA-Cina.
Per questo, Federalimentare spinge su iniziative promozionali coordinate con i Dicasteri competenti e con l’Ice. Esse stanno dando frutti importanti, a cominciare dal mercato nord americano. Ma occorrono nuovi fondi per non interrompere lo sforzo in atto, e non solo progetti.
La Federazione spinge inoltre sul potenziamento della iniziativa fieristica leader nel Paese, Cibus. Ad essa siamo legati fin dalla sua nascita, mediante accordi di partenariato con l’Ente Fiere Parma. Ed è quasi inutile dire che lo strumento fieristico rimane attualissimo, in epoca di digitalizzazione crescente. Esso consente, soprattutto alla galassia delle Pmi, che costituiscono l’ossatura più vasta e svantaggiata del settore sui mercati internazionali, di avvicinare un crescente numero di operatori stranieri, creando fruttuosi rapporti di business.
Quali strumenti normativi abbiamo a disposizione per contrastare l’Italian sounding?
In mancanza di un quadro aggiornato delle regole del commercio internazionale, stante il fallimento del rinnovo del WTO sofferto nello scorso decennio, il settore auspica pragmaticamente l’infittirsi di accordi bilaterali tra aree e paesi. Quelli raggiunti di recente con Canada e Giappone, che hanno previsto salvaguardie significative dalle contraffazioni per un paniere importante di prodotti a certificazione garantita, sono un ottimo esempio. Aggiungo che col Canada l’accordo è partito bene, per cui francamente non comprendiamo fino in fondo l’attendismo italiano per la ratifica dell’accordo. Col Giappone è ancora presto per giudicare, in quanto il Jefta è stato siglato da poco. Ma ci sono tutte le premesse, con partner affidabili come i giapponesi, per veder materializzare a breve le nostre aspettative.
Poche settimane fa l’Italia ha firmato un Memorandum of understanding con la Cina. Ci sono aspetti che potrebbero coinvolgere il settore alimentare? E in che modo?
La Cina è un mercato interessantissimo, ma è ancora molto sotto le sue potenzialità. E l’anno scorso ha segnato una battuta d’arresto per le esportazioni del nostro “food and beverage”, con un -2,1%. Un esempio: le soddisfazioni che la Cina ha riservato al comparto leader dell’export alimentare italiano, l’enologico, sono state molto modeste. Questo comparto – che è primo al mondo per quantità esportata e secondo, dopo la Francia, per valore esportato – rema tuttora indietro, al quarto posto, tra i fornitori del mercato cinese. E fino a due anni fa era quinto.
Ogni accordo a vario titolo promozionale, come quelli raggiunti recentemente con l’Italia, sono perciò apprezzabili in linea di principio. Anche perché il raggiungimento di un accordo finale USA-Cina, a esito dei faticosi negoziati commerciali in corso, potrebbe innescare un effetto “boomerang”. Bisogna ricordare infatti che l’impegno cinese, connesso alla stipula dell’accordo, ad effettuare maggiori, massicci acquisti di prodotti USA per riequilibrare la bilancia commerciale fra i due paesi, indebolirà la domanda cinese verso altri fornitori, Europa in primis.