Con la consapevolezza che i sette anni di crisi dietro le spalle non dovranno essere archiviati nella memoria, ma d’ora in poi faranno da monito, a ribadire quella che pare un’ovvietà ma non lo è: mai “sedersi” sui risultati, anche se positivi, ma lavorare per migliorare, sempre. Sapendo che migliorare fa spesso rima con “innovare” e che questo input va trasmesso a tutta l’impresa nel suo insieme, “innervando” e ripensando ogni funzione aziendale e cercando di non lasciare nessun pezzo indietro.
È questo il messaggio lanciato al Convegno Biennale di Piccola Industria Confindustria, “Il Rinascimento è l’impresa – Per una nuova economia della trasformazione”, l’appuntamento che ha raccolto il 27 e il 28 marzo scorso centinaia di imprenditori provenienti da tutta Italia all’Hilton Molino Stucky di Venezia. Due giorni di dibattito fra esperti, politici e protagonisti della vita d’impresa, condotti dal vice direttore del Giornale Nicola Porro e conclusi da un’intervista doppia al presidente di Confindustria Giorgio Squinzi e al ministro del Lavoro e delle Politiche sociali Giuliano Poletti. Due giorni che, proprio in virtù di quell’entusiasmo che si percepiva, gli imprenditori hanno deciso di aprire intonando l’inno nazionale: il Comitato di presidenza di Piccola Industria e le associazioni ospitanti sul palco e tutta la platea in piedi.
Al di là della cronaca comunque quello che ciascuno degli imprenditori porta a casa è una riflessione su ciò che farà la differenza nei prossimi anni tra chi accetta la sfida del cambiamento e chi resta fermo. “Trasformarsi va bene, ma in quale direzione?”, sembra allora chiedere la platea. La risposta arriva nei quattro trend – internazionalizzazione, innovazione, finanza d’impresa e talenti – annunciati nel discorso d’apertura del presidente di Piccola Industria Alberto Baban ed esaminati nel corso di altrettanti mini dibattiti a più voci, nei quali hanno prevalso informalità e pragmatismo.
Internazionalizzazione significa tenere fede in primo luogo a quella che è la propria identità di imprese italiane. Siamo e restiamo un paese di trasformatori, mani e cervello sono la nostra ricchezza, ma dobbiamo essere capaci di valorizzare e anche difendere – si pensi all’italian sounding che tanto sottrae ogni anno in termini di mancati guadagni – la nostra unicità. E poi, rispetto al patrimonio di imprese presente nel paese, va detto che sono ancora troppo poche quelle che esportano e dalle quali dipende il 30% del nostro Pil, come ha ricordato il vice ministro dello Sviluppo economico Carlo Calenda.
Nessuno ha negato che operare sui mercati esteri oggi richieda un surplus di preparazione rispetto anche a soli vent’anni fa – si pensi per esempio alle potenzialità offerte dall’e-commerce nel quale le Pmi sono indietro – ma è stato anche ribadito come le piccole e medie imprese debbano ancora lavorare per rafforzare la propria struttura patrimoniale e finanziaria, condizione necessaria ad affrontare sia i mercati esteri, sia ad abbracciare qualsiasi progetto di sviluppo.
A influire in negativo è stata anche la modesta cultura finanziaria che ha sempre caratterizzato le nostre Pmi, impigrite dalla dipendenza nei confronti del credito bancario e in genere poco inclini a prendere in considerazione altri strumenti di finanziamento (minibond e private equity, per fare un esempio). Oggi i fondi di garanzia e i fondi di investimento in parte pubblici potranno dare una mano, ma resta chiaro che andranno premiati progetti validi e con prospettive.
E l’innovazione? Sul palco è comparsa “fisicamente” con il robot illustrato da Barbara Mazzolai, direttore del centro Micro-Biorobotica dell’Istituto Italiano di Tecnologia. Si tratta del primo robot al mondo ispirato al mondo vegetale, ha spiegato, e concepito per il monitoraggio ambientale attraverso l’esplorazione del suolo. Una bella prova della qualità della ricerca italiana e dell’importanza dei brevetti.
Ma c’è stata anche l’innovazione raccontata nei video che hanno accompagnato le due giornate del convegno e che hanno testimoniato la vitalità ancora molto forte del sistema produttivo del paese.
Una vitalità che deve assolutamente coinvolgere e valorizzare i giovani, i talenti, troppo spesso costretti ad andare via o a non poter far fruttare gli studi universitari ripiegando su lavori meno qualificati e con minori retribuzioni. Nota giustamente Baban: “In otto anni di crisi abbiamo compromesso una generazione.
Giovani che hanno continuato a sentire ripetere tante volte lo stesso ritornello sul declino, che hanno toccato mille volte con mano la regola dei furbi o sono stati sconsigliati dall’impegno con un “chi te lo fa fare”.
Se è vero che “da sole le nostre aziende non ce la possono fare a rimettere in piedi il paese – ha proseguito – possiamo costruire un nuovo patto tra stato e cittadini che riconosca la centralità della cultura imprenditoriale, trasformandola in un valore sociale condiviso”.
Al di là delle singole proposte scandite dagli ospiti sul palco, infatti, il senso del convegno di Venezia trova in queste parole una sua sintetica espressione: l’impresa come valore di tutti e per tutti, che deve scrollarsi di dosso vecchi modi di concepire sé stessa (il mito dell’impresa/persona, prima di tutto) e al tempo stesso pretendere che lo Stato sostenga e accompagni il cambiamento.