L’occupazione culturale è una questione che da tempo sta al centro della riflessione da parte del governo anche in relazione alle strategie di politica economica per un paese ad alta disoccupazione giovanile e femminile. L’Italia subisce da lungo tempo una situazione di stagnazione economica dei settori dei servizi e da tempo si riflette sull’agire per generare processi di sviluppo più intensi in un ambito molto vasto e differenziato, spesso chiuso al mercato estero.
Tra i settori meritevoli, il settore culturale possiede alcune potenzialità da non sottovalutare. In particolare, anche grazie alla pandemia, hanno trovato evidenza e subìto una forte accelerazione, alcuni avvenimenti importanti:
- la inevitabile spinta alla digitalizzazione della cultura e del suo indotto in termini di trasformazione e ampliamento dei mercati, di trasformazione dei prodotti/servizi, di integrazione dei processi e di nuovi lavori;
- l’eccellenza di alcune realtà del mondo culturale, imprenditoriale e del Terzo settore, che hanno mostrato di sapere sostenere e reagire all’improvvisa difficoltà. Grazie al supporto dei propri lavoratori sono stati modificati modelli organizzativi e ripensate le tecnologie, le attività, i servizi;
- una spinta alla solidarietà “collettiva” che, anche con il supporto delle organizzazioni del Terzo settore, ha preso forma e ha consentito di affrontare alcune emergenze contingenti.
Tali segnali, però, vanno circostanziati in un contesto caratterizzato da una dinamica occupazionale del settore tra il 2014 e il 2019 dello 0,7% in media annua, assai più lenta di quella dell’Ue del 3%.
L’evoluzione delle attività diverge nel tempo a causa delle innovazioni tecnologiche, dalle mutazioni dei comportamenti dei consumatori e dall’adattamento delle imprese al mercato. Queste divergenze si riflettono sulla dinamica aggregata del settore nei diversi paesi, favorendo quelli dove esiste una maggiore specializzazione nelle attività in crescita.
Guardando alle industrie culturali nello specifico, alcuni comparti mostrano in Italia una crescita superiore alla media Ue: l’editoria libraria, la produzione cine-audiovisiva e industria musicale nel complesso aumentano il valore aggiunto del 6,1% in media annua.
In uno scenario che si contraddistingue tra luci e ombre, le politiche del lavoro hanno un ruolo importante quanto le politiche industriali, dato che la struttura produttiva delle imprese culturali è per definizione ad alta intensità del fattore lavoro.
Tuttavia, per prendere decisioni fondate, è necessario fare i conti con alcuni complessi nodi complessi del mercato, tra i quali ne ricordiamo alcuni: il mescolamento tra imprese e istituzioni appartenenti a tutti i soggetti quali il pubblico, il privato, il non profit; le dimensioni organizzative variegate e di taglia diversa; la compresenza di tipologie di lavoro altamente qualificato e non; gli squilibri territoriali tra aree del Nord e del Sud, e tra aree urbane ed extra-urbane; la compresenza di lavoratori con la stessa professione collocati in posizioni e forme contrattuali diverse.
A tali nodi di natura generale, vanno aggiunti ulteriori aspetti:
- le imprese culturali e creative si collocano in una struttura industriale fragile, caratterizzata dalla presenza di imprese di piccole dimensioni che, come tali, non possono porsi alla testa della relativa filiera e non hanno la capacità di competere se non in forme subalterne. Le grandi imprese, ad accezione di alcuni settori (TV, editoria, produzione cinematografica), sono rare e spesso straniere, spesso soggiogate dalle Over the top.
- La struttura organizzativa delle imprese culturali e creative sta cambiando nel corso del tempo e si stanno affermando professioni in funzioni e ruoli non culturali e non creativi che costituiscono spesso l’anello più debole delle imprese culturali. Ne deriva che una parte rilevante delle esigenze professionali richiedano personale di tutt’altro genere rispetto a quello artistico e tecnico su cui è focalizzato invece l’assetto educativo e formativo del settore.
- Il disequilibrio tra figure professionali tipicamente culturali e quelle non culturali, anche in considerazione delle trasformazioni tecnologiche in corso, crea il fenomeno del mismatch che, senza una seria programmazione dell’offerta formativa pubblica e privata, sarà difficile risolvere e superare pienamente nel medio e lungo termine.
- Si assiste ad un classico trade-off: i lavoratori non investono su competenze altamente specializzate se lo sforzo richiesto e i costi associati non trovano un’adeguata e stabile offerta di lavoro. Al contrario, l’ambito dei datori di lavoro, invece, con alcune differenze significative tra settori, è contraddistinto dall’offerta di posti di lavoro altamente flessibili. Non è facile modificare questo assetto che deriva da oggettive condizioni tecnologiche e di mercato, con l’ovvia eccezione nei settori dove il progresso tecnico fa lievitare i rendimenti come nel digitale e nella comunicazione.
- I lavoratori subiscono spesso le cattive condizioni di lavoro, soprattutto alcune categorie “a rischio” come le donne, i giovani e i lavoratori adulti, sempre più polivalenti e de-specializzati.
- molti occupati hanno uno status incerto, sfumante nella figura del volontario. Si tratta della questione del lavoro informale, un capitolo che in Europa è definita flexploitation e che non solo indebolisce i lavoratori, ma espone le imprese culturali e creative al rischio di perdere collaboratori qualificati verso settori più stabili.
L’articolo propone alcuni strumenti di intervento, tra i quali menzioniamo i più importanti: gli investimenti in tecnologie e processi di digitalizzazione per favorire la traduzione dei contenuti artistici in ambiente digitale; la predisposizione di interventi per favorire la “cross-fertilizzazione”; l’attivazione di interventi mirati a supportare l’internazionalizzazione; la promozione della democrazia culturale, aumentando le possibilità d’accesso e di partecipazione delle persone alle forme culturali, con particolare attenzione a chi è inserito in situazione di marginalizzazione.
Le politiche per la professione devono essere focalizzate non solo sulle singole figure professionali, ma nel lavoro in team dando priorità alle soft skills. In ultimo: se la flessibilità del lavoro è connaturata al settore culturale e creativo, va rafforzata la rete di protezione sociale attorno ai lavoratori durante le inevitabili fasi di pausa: sussidi di intermittenza, salari minimi, protezione sociale da malattia e così via.
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Nota sull’autore
Alessandro F. Leon è presidente del Centro di Ricerche e Studi sui problemi del Lavoro dell’Economia e dello Sviluppo (Cles) srl. È segretario generale dell’Associazione per l’Economia della Cultura che edita la rivista “Economia della Cultura”.
Sviluppa da oltre trent’anni attività di ricerca e di consulenza per conto di amministrazioni pubbliche europee, centrali, regionali e locali, e delle organizzazioni e imprese del settore privato e del terzo settore.
È componente di consigli di amministrazione di grandi istituzioni culturali sia museali, sia teatrali. È docente di economia della cultura in varie università italiane per i corsi di master rivolti prevalentemente ai temi gestionali e alla progettazione di grandi contenitori culturali.