Nel 1901, quando l’Italia ancora rurale aveva il 70% della sua popolazione attiva impegnata nell’agricoltura, nell’Inghilterra ormai industrializzata solo il 10% dei lavoratori erano addetti al settore primario.
La nascita delle grandi industrie fu salutata come un evento rivoluzionario sia dai pensatori liberali che da quelli cattolici, socialisti e comunisti. Tutti, però, additarono in quella rivoluzione alcune gravi, possibili conseguenze sul piano umano e professionale.
Nel suo straordinario reportage “La democrazia in America” Toqueville annoterà: “Quando un artigiano finisce per dedicarsi solo e unicamente alla fabbricazione di un unico oggetto, finisce per svolgere questo lavoro con una destrezza tutta particolare. Ma egli perde, allo stesso tempo, la facoltà generale di applicare la propria intelligenza alla direzione del lavoro. Egli diviene ogni giorno più abile e meno industrioso e si può dire che in lui l’uomo si degrada nella stessa misura in cui l’operaio si perfeziona. Cosa dobbiamo aspettarci da un uomo che ha impiegato venti anni della sua vita a fare capocchie di spilli?”.
Il progresso dell’industria fu galoppante proprio grazie a questi metodi, che passavano sopra alla creatività artigiana e riducevano milioni di lavoratori a semplici esecutori di idee altrui. Con Taylor e con Ford, agli inizi del Novecento, la divisione del lavoro diventò scientifica e cronometrica: non solo tra operaio e operaio, ma soprattutto tra i pochissimi lavoratori delegati all’ideazione e i tantissimi analfabeti addetti all’esecuzione.
Sotto questo aspetto l’industria è stata due volte nemica dell’artigianato: prima, perché, assumendoli in fabbrica, ha ridotto milioni di artigiani indipendenti alla condizione di esecutori dipendenti; poi perché ha manipolato quei pochi rimasti artigiani, inducendoli a preferire la quantità invece della qualità, quasi vergognandosi del proprio prodotto.
Ma, dopo due secoli di società industriale, l’azione congiunta del progresso tecnologico, dello sviluppo organizzativo, della globalizzazione, della scolarizzazione diffusa, dei mass media e della rete ha determinato il passaggio dalla società industriale, centrata sulla produzione dei beni materiali alla società postindustriale basata sulla produzione dei beni immateriali (informazioni, servizi, simboli, valori, estetiche).
In questa nuova società la fatica fisica e quella intellettuale sono sempre più delegabili alle macchine automatiche e ai computer, vengono ridimensionati i miti tutti industriali dell’esecutività e della quantità, resta all’uomo il monopolio di ogni attività centrata sulla creatività. Riemerge così, dopo due secoli di relativa latenza, la figura dell’artigiano sia pure influenzata profondamente, nel bene e nel male, dall’esperienza industriale, che gli ha offerto il supporto delle nuove tecnologie e un nuovo segmento di mercato, costituito dalla stessa industria che spesso acquista prodotti dalle piccole aziende. Ma l’industria gli ha insinuato pure una cultura tutta centrata sulla specializzazione, sulla parcellizzazione, sulla velocità, sulla sottovalutazione dell’estetica, della creatività e dell’indipendenza.
Ne deriva che oggi l’artigiano si trova a scegliere tra due anime: quella dell’artista elitario e quella del piccolo industriale. Nel primo caso l’artigiano interpreta il proprio ruolo come quello di un creativo solitario, che produce pezzi unici e rari destinati a raffinati intenditori. Nel secondo caso l’artigiano aspira a diventare un “reparto decentrato” delle grandi industrie, dalle quali mutua le commesse, le tecniche e lo spirito.
Naturalmente, fra questi due poli estremi, esistono infinite sfumature ma, in ogni caso, l’artigiano deve restare fedele all’immagine positiva che l’opinione pubblica continua a coltivare sul suo conto. A tale scopo, mentre deve evitare ogni comportamento che possa evocare superficialità, evasione fiscale, inaffidabilità, d’altra parte deve garantire beni e servizi non standardizzati, perfettamente aderenti alle esigenze soggettive del cliente e dotati di quella originalità cui l’industria ha rinunziato.
Il mercato richiede sempre più prodotti creativi, onesti, su misura, che solo l’artigiano può garantirgli. D’altra parte l’organizzazione del lavoro, una volta delegate alle macchine le mansioni esecutive, richiede modelli sempre più lontani dai reparti delle grandi fabbriche e sempre più basati su matrici, progetti, task-force, isole, job enrichment.
Sotto questo profilo il lavoro artigiano costituisce una delle grandi riserve di metodi organizzativi diversi da quello industriale perché basato sulla partecipazione, sui piccoli gruppi, sulla creatività, sull’autoregolazione, il decentramento e la flessibilità.