Accumulare energia elettrica non è semplice né economico, eppure questa operazione è praticata da decenni, quasi esclusivamente mediante impianti di pompaggio. Nell’ultimo decennio si è osservato un crescendo di interesse per lo storage, in relazione alla penetrazione delle fonti rinnovabili elettriche intermittenti: crescono le incertezze che gli operatori di rete devono affrontare e si assottigliano le risorse, soprattutto impianti termoelettrici, a disposizione per riserva e regolazione di frequenza.
I sistemi di accumulo elettrico rappresentano una delle opzioni più importanti per sopperire a queste esigenze. A fianco dei tradizionali impianti di pompaggio, la cui ulteriore espansione è frenata, oltre che dal non sempre attraente ritorno dell’investimento, anche da barriere di accettabilità sociale, sta crescendo l’interesse per l’accumulo elettrochimico (batterie), che ha punti di forza: rapidità di intervento, scalabilità e versatilità, e inoltre benefici di investimenti in ricerca e in capacità produttiva generati dall’affermazione della mobilità elettrica.
In diverse aree (Europa, Stati Uniti, Canada, Australia) si registra un numero ormai elevato di sistemi di accumulo elettrochimico di taglia multi MW. L’Agenzia internazionale dell’Energia indica a fine 2017 una capacità di accumulo globale di 15.300 MWh, pompaggi esclusi, e di questa capacità circa la metà si basa su batterie. In Italia, Terna ha realizzato sistemi di accumulo elettrochimico per una potenza totale di circa 50 MW e una capacità di 250 MWh. Altri progetti di accumulo di taglia significativa (dell’ordine del MW ciascuno) sono stati realizzati da parte di altri soggetti, soprattutto operatori di distribuzione e produttori da fonti rinnovabili.
Vi è infine la fascia degli storage medio-piccoli, per lo più impiegati da proprietari di impianti fotovoltaici per massimizzare l’autoconsumo: si stima che a fine 2018 siano presenti in Italia circa 26mila di questi piccoli sistemi e, assumendo una taglia media di 4 kW, si avrebbe una potenza totale di circa 100 MW.
Nel complesso, la potenza disponibile nel nostro Paese sotto forma di energy storage elettrochimico è stimabile in circa 170 MW, dato ragguardevole ma pur sempre modesto se raffrontato al fabbisogno di riserva del sistema italiano, tipicamente dell’ordine di alcune migliaia di MW.
La lenta crescita dello storage stazionario deriva da tre fattori: i prezzi delle batterie, ancora piuttosto elevati anche se in diminuzione; il mercato dei servizi di dispacciamento, in larga parte soddisfatto, a prezzi contenuti, dagli impianti termo- e idroelettrici; le regole attuali (scambio sul posto per gli impianti di generazione medio-piccoli) rendendo meno importante l’autoconsumo.
Ciononostante, è questo il segmento di maggiore vivacità negli ultimi anni. Rse, in collaborazione con Anie, ha svolto numerosi studi per individuare alcuni casi favorevoli a investimenti in accumulo stazionario. Per ora non sono molte le situazioni con ritorno dell’investimento compatibile con la vita delle batterie: fra questi, sicuramente le isole minori non connesse alla rete di trasmissione (non a caso Enel ha installato a Ventotene uno storage, che ha prodotto benefici di riduzione del consumo dei diesel) e i casi in cui è possibile lo sfruttamento delle batterie per più servizi, sommando quindi entro certi limiti i ricavi e i costi evitati.
Si segnala come particolarmente interessante il caso di utenti con fotovoltaico, che singolarmente usano le batterie per aumentare l’autoconsumo ed inoltre, coordinati da un aggregatore, formano un sistema di accumulo virtuale di taglia sufficiente a partecipare ai servizi ancillari (schema “Uvam”).
Un caso analogo e altrettanto promettente è quello del vehicle to grid, in cui sono le batterie dei veicoli elettrici a partecipare ai mercati, aggregandosi fra loro quando connesse a un punto di ricarica.
Di Luigi Mazzocchi, Dipartimento Tecnologie di generazione e materiali Rse