Pochi presidenti americani hanno resistito alla tentazione di attivare barriere di varia natura per difendere la siderurgia nazionale. Repubblicani o democratici che fossero, la loro azione fu sempre decisa, ma anche rispettosa del vigente sistema di libero scambio internazionale.
A questi fa eccezione il presidente Trump, che pare abbia un’idiosincrasia verso il free trade e, in particolare, verso l’attuale gestione del sistema multilaterale del commercio del Wto. Una differenza non marginale, che potrebbe determinare effetti ben più gravi – a oggi non prevedibili – di quelli già noti.
Che una politica protezionistica abbia conseguenze controproducenti per la stessa economia americana è provato. Si prospetta, però, anche un danno a carico dei partner commerciali, compresi quelli – in tutto o in parte – esentati dai nuovi dazi. Se il rischio di innescare una spirale di azioni e controreazioni è più che un’ipotesi, nell’immediato il clima di incertezza determina un blocco delle commesse e degli investimenti, impattando su una ripresa mondiale nella quale il commercio è sempre più il motore della crescita.
Guardando a casa nostra, nel 2017 l’export è cresciuto del 7,3% in valore e del 3,1% in volume. L’andamento del recupero è visibile anche considerando le importazioni, aumentate del 9% in valore e del 2,6% in volume, con un surplus commerciale record.
Un risultato apprezzabile soprattutto per quelle Pmi che guardano con crescente distacco al mercato domestico e proprio per questo più sensibili all’impatto della politica commerciale. Se da una parte, infatti, le Pmi sono i soggetti più flessibili e reattivi al cambiamento, dall’altra sono anche quelli più esposti ai costi burocratici, amministrativi, regolamentari, così come i meno favoriti nell’accesso al credito, nell’acquisizione di risorse umane specializzate e nell’internazionalizzazione. In questo il piano Industria 4.0 e gli strumenti per consentire alle imprese di avvalersi temporaneamente di export manager sono esempi di misure efficaci.
Tuttavia, è la regolamentazione commerciale che può realmente favorire l’accesso delle Pmi ai mercati mondiali. Un esempio sono le procedure e le regole doganali: una maggiore convergenza di questi elementi, soprattutto in certi settori e per alcune esportatrici abituali, può infatti “valere” più della riduzione di un dazio.
Gli aspetti tariffari restano comunque rilevanti e anche un dazio del 3-5% rappresenta per una Pmi una “tassa” ormai ingiustificata, data l’importanza di queste imprese nella catena globale del valore. Si pensi poi al rispetto degli standard: la cosiddetta “compliance” è un costo fisso e la loro armonizzazione apporterebbe grandi benefici alle Pmi che puntano sui mercati esteri. Ciò detto, se proprio non vogliamo apprendere dalla storia, abbiamo tante e valide ragioni per non minimizzare quanto sta accadendo che, probabilmente, riguarda molto più la politica che non l’economia. Il nuovo rinvio da parte di Trump della decisione sui dazi parrebbe una conferma.