
Un divieto esplicito, un suggerimento diretto o una “spinta gentile” nella direzione desiderata: quale di queste strategie è in grado più delle altre di influenzare una scelta? Immaginiamo un cartello all’ingresso di un locale e facciamo un test: “in questo locale le persone non fumano” oppure “vietato fumare”. Una delle due formule induce volontariamente a non fumare: per molti è la prima. È la cosiddetta spinta “non coercitiva”: non impone regole, non focalizza il divieto ma fa leva sul potere dell’omologazione. Un tipico esempio di nudging theory.
Di cosa si tratta? Di un approccio molto usato in politica, nell’economia sostenibile e nel marketing, dove con specifiche tecniche e in modo soft si spingono le persone verso comportamenti ritenuti idonei al bisogno, al contesto e spesso alla collettività. Non a caso nudge significa letteralmente “colpetto” o “pungolo”: è l’atto di indirizzare verso la scelta ritenuta migliore. Lo spiegano bene l’economista Richard H. Thaler, vincitore del premio Nobel per l’economia, e il professore di legge della Harvard Law School, Cass R. Sunstein, nel libro Nudge: improving Decisions about Health, Wealth, and Happiness.
Secondo gli autori “un nudge è qualsiasi aspetto dell’architettura di scelta che altera il comportamento delle persone in modo prevedibile senza vietare alcuna opzione o modificare in modo significativo i loro incentivi economici”.
L’INCORAGGIAMENTO DOLCE, IN CONCRETO
Ragionando in concreto: ogni nostra decisione avviene in un contesto che condiziona fortemente i nostri impulsi. Pensiamo alla disposizione delle merci in un supermercato, con frutta e verdura appena dopo l’ingresso – quando si è ancora saldi nei propositi di un consumo healthy – e i cioccolatini vicino alle casse, per acquisti golosi in corner. Ogni buon marketer tiene conto di queste dinamiche: sono opportunità.
Lo confermano gli studi di alcuni scienziati dell’Università di Cambridge sugli effetti dell’“incoraggiamento dolce”: nel 2019 un team impegnato a ridurre l’impatto ambientale del cibo proposto nelle caffetterie del noto ateneo ha chiarito che per invogliare gli studenti a ridurre il loro consumo di carne non servono raccomandazioni plateali o disincentivi economici, ma è sufficiente raddoppiare le opzioni vegetariane nel menu.
Un test effettuato sul campo lo dimostra: la vendita di pietanze a base vegetale è cresciuta dal 41% al 79% nelle mense dell’università solo grazie all’aumento dei piatti green disponibili. Altro esempio di nudging dove – pur non lavorando sul wording – si opera “sull’architettura della scelta” e sui fattori che la influenzano. Il processo causa-effetto è chiaro, così come gli spazi d’azione a monte: spesso per orientare una risposta basta cambiare il modo in cui viene posta la domanda.
PAROLE CHIAVE E REGOLE D’ORO
Lavorare con il nudging non è banale: porta a un risultato solo se si esplora la psicologia dei clienti fino in fondo. Del target vanno compresi i profili psicografici, abitudini, interessi, valori e inclinazioni psicologiche. Una base indispensabile per lavorare su euristiche e bias cognitivi. Le golden rules per mandare in porta l’operazione si traducono in poche parole-chiave:
- Facilità: il comportamento desiderato deve essere semplice da mettere in atto.
- Pressione sociale: sapere che altri hanno adottato un certo comportamento spingerà le persone ad omologarsi.
- Default: inserendo l’opzione preferita di default si svincolano le persone ad agire riducendo la fatica e lo sforzo.
INNESCHI PSICOLOGICI E TRIGGER: L’ESPERIENZA DEI BRAND
Tecniche sperimentate e declinate da tanti brand, per i quali il terreno è innegabilmente ghiotto. Un esempio su tutti è quello di Starbucks, che abilmente gioca con il cosiddetto decoy effect – meglio noto come “effetto esca” – con le dimensioni delle bevande. Se il confronto tra i primi due tagli (small e big) non porta ancora a un risultato univoco, la situazione cambia con l’aggiunta di una terza unità medium, che evidenzia i presunti punti di forza di una delle due opzioni e facilita la scelta finale. Risultato: se precedentemente le persone erano portate a scegliere la prima alternativa, quella più economica, con l’ampliamento dell’offerta si orientano verso l’alternativa intermedia, diventata più attrattiva. E giocando sui prezzi, la spinta verso la misura maggiore si fa più forte: aumentando il costo della media, la taglia grande appare più competitiva.
Inneschi psicologici o trigger viaggiano spesso anche sulle etichette, come nel caso Ikea (e di tanti altri marchi) dove “prezzo famiglia” fa appello a un certo segmento di acquirenti desiderosi di risparmi, mentre “novità” attira il segmento più curioso e di innovatori. O nei sempreverdi i messaggi centrati sul tema della scarsità, dove l’azienda cerca di attirare il cliente, evidenziando i “pochi prodotti rimasti” come spesso accade nell’e-commerce, quando il nudging fa appello al “Fomo” (Fear of missing out): se su un sito facciamo apparire i beni disponibili come limitati, li rendiamo esclusivi e ne accresciamo l’appeal.
Non mancano le banche – basti pensare alla frase collocata sui bancomat dove si specifica che “non richiedere la ricevuta cartacea del prelievo è la scelta più ecologica” – né gli esempi dal marketing nutrizionale, dove si gioca sulle “percentuali di zuccheri o di grassi minori rispetto alla media degli altri prodotti simili”, con segnalazioni ben in vista sulle confezioni di biscotti.
QUANTO CONTA LA MOTIVAZIONE DEL CLIENTE?
Come tutte le azioni di indirizzo – esplicite o implicite, in ambito professionale o personale – anche la “spinta gentile” va dosata: input mal orchestrati possono generare il noto effetto boomerang, con una presa di distanza crescente da parte dell’utente finale.
Per costruire nudge equilibrati ed efficaci è allora utile prendere come riferimento il Behavior Model di Brian Jeffrey Fogg e tenere d’occhio “il punto di prompt ottimale”. Secondo il fondatore del Behavior Design Lab della Stanford University, i nudge possono avere successo “solo se un individuo è capace di completare un’attività, se è motivato a svolgere quella determinata azione e se ha uno stimolo che scateni l’avvio del comportamento”. Una formula “matematica” – cui è collegata una rappresentazione grafica molto usata nel marketing – dove il termine prompt sta per “sollecito, pronto, immediato” e richiama la spinta cortese.

COMPORTAMENTO = MOTIVAZIONE X CAPACITÀ X PROMPT
NUDGING ED ETICA: LA POTENZA DEI BIAS COGNITIVI
Se i nostri processi decisionali sono costellati da bias cognitivi, come dimostrato, un abile uso del nudging può rivelarsi strategico nel far compiere alle persone le scelte desiderate. La domanda sorge immediata: l’etica viene messa a rischio in questo percorso, e quanto? Fino a che punto si possono spingere le aziende, le istituzioni e la politica nelle loro attività di orientamento?
Il terreno è scivoloso, ripido e con biforcazioni: i percorsi possibili sono praticamente infiniti e gli equilibri mai facili, così come le necessità di aziende, attività commerciali o governi sono mutevoli e legate a numerose importanti variabili. L’esistenza di centinaia di bias cognitivi, d’altro canto, permette altrettante azioni, tutte differenti e con diverso impatto.
Torniamo allora al concetto-chiave: la lezione più importante del nudging è che un divieto imposto ha prestazioni scarse rispetto a una comunicazione che invoglia e influenza positivamente. Usiamolo per far compiere alle persone azioni virtuose e socialmente responsabili, come insegna il nudging ambientale, e sfruttiamolo in modo etico per orientare il business. Una risorsa preziosa nelle interazioni quotidiane e le “trattative in famiglia”: mai sottovalutare l’impatto di una “spinta gentile”.
L’esperienza di Confindustria: leadership gentile, il nostro way to be
Il vice presidente Alberto Marenghi: “Ripensare modelli e relazioni per rafforzare il brand”

ALBERTO MARENGHI
Dopo anni disruptive tra pandemia e guerra, è cambiato per tutti il modo di intendere la vita e il lavoro. Grandi e piccole aziende, in tutto il mondo, stanno ripensando i propri modelli operativi: le modalità che conoscevamo sono superate. Vale anche per Confindustria, dove si valorizzeranno sempre più interazioni a qualità relazionale alta, sia all’interno della struttura che nei rapporti con le aziende.
“Faremo un buon marketing se sapremo concentrarci sempre più sui bisogni concreti delle imprese, entrando in relazione profonda con le persone che le rappresentano e dialogando con loro in modo efficace – afferma Alberto Marenghi, vice presidente di Confindustria con delega all’Organizzazione, Sviluppo e Marketing –. La cultura che accompagna questo processo sarà sempre più improntata al concetto di leadership gentile. Un approccio che implica un potenziamento mirato delle capacità delle persone e un lavoro profondo sulle loro soft skill, unito a quello sulle hard skill oggi irrinunciabili. L’obiettivo è favorire l’adozione di un tone of voice coerente ed empatico da parte di tutti i nostri responsabili marketing, per massimizzare l’efficacia di ogni momento di contatto con le aziende. “Anche per questo, nelle sessioni formative dedicate al team del marketing nei prossimi mesi toccheremo il tema della leadership gentile – conclude Marenghi – così importante nei processi di negoziazione”.
(Servizio pubblicato sul numero di maggio dell’Imprenditore)