“Pechino sarà il punto di passaggio necessario per arrivare a una trattativa perché è l’unica che può mandare un messaggio forte alla Russia”. La strada che conduce alla fine delle operazioni militari in Ucraina passa, dunque, per la Cina. Ad affermarlo è Vittorio Emanuele Parsi, ordinario di relazioni internazionali all’Università Cattolica di Milano e autore del recente Titanic. Naufragio o cambio di rotta per l’ordine liberale, edito dal Mulino. Al tavolo delle trattative per un accordo tra i due paesi belligeranti, Russia e Ucraina, potrebbe esserci l’Unione europea oppure qualche organizzazione sovranazionale, ma il ruolo cinese, seppure sullo sfondo, non è in discussione.
Sancirebbe il fatto che per la prima volta in una questione di rilevanza mondiale Pechino deve dare il proprio placet?
Non la vedrei in questi termini. Noi non sappiamo come saranno esattamente le loro relazioni, ma quello che è certo è che il mondo del futuro immediato è fatto da Cina e Stati Uniti e anche Europa. Se si guarda alle loro economie hanno molto in comune: hanno un grande Pil aggregato, hanno produzioni ad alto valore aggiunto e hanno una popolazione che invecchia. La Russia tutto questo non ce l’ha: non è una protagonista dell’economia, né della politica mondiale, ha un regime obsoleto e non ha alcuna proposta ideologica.
Tornando alla sua domanda, la Cina sa benissimo di avere interessi comuni a quelli di Putin che vanno nella direzione di indebolire gli Stati Uniti, ma allo stesso tempo ha anche un interesse diverso dal capo del Cremlino, che è quello di tenere insieme il mondo globalizzato e fare in modo che l’Europa sopravviva come unità politica ed economica. Non ha alcun interesse, invece, a che la Russia diventi potenza egemone nel continente. Attualmente all’interno della leadership comunista c’è un confronto in atto fra l’ala di Xi Jinping, più vicina a Putin e diffidente verso la democrazia, e un’altra ala del partito, che non vuole essere prima nel mondo ma nemmeno seconda a nessuno, e chiede un rapporto paritario con Stati Uniti ed Europa.
Quali i possibili effetti?
Se prevalesse il secondo atteggiamento, questo faciliterebbe anche negli Stati Uniti l’idea di guardare a Pechino in modo diverso, anche perché finora i cinesi la forza contro qualcuno non l’hanno mai impiegata. A tendere, dunque, intravedo una convergenza possibile fra Cina, Stati Uniti ed Europa. Uno scenario nel quale non c’è posto per la Russia, che già arrancava in questo mondo del futuro ma dopo ciò che ha fatto si è tagliata fuori da sola.
In autunno Xi Jinping dovrebbe essere confermato per il terzo mandato presidenziale, ma la sua leadership è apparsa un po’ incrinata, anche per i limiti della strategia “zero Covid” imposta al paese. È un passo nella direzione che lei suggerisce?
Non sono un esperto di Cina, ma, proprio perché il paese è cambiato, la leadership collegiale oggi non appare così convinta di voler legare le sorti del partito comunista alle fortune di Xi. Uno degli errori che gli stanno facendo pesare è aver dato l’avallo a Putin per questa guerra durante il vertice olimpico. Xi si è fatto convincere che sarebbe stata una cosa veloce: gli ucraini sarebbero crollati, gli europei avrebbero abbozzato e gli americani non avrebbero fatto nulla. Nessuno come Putin ha fatto un buon servizio alla Nato e il risultato oggi è che nuovi paesi chiedono di aderire.
A questo proposito, le richieste di Finlandia e Svezia, facilitano o complicano la conclusione del conflitto?
Facciamo una premessa: Finlandia e Svezia non avevano nessuna intenzione di aderire alla Nato, così come quest’ultima non aveva alcuna previsione di accogliere i due paesi, che stavano bene nella loro condizione di neutralità. Putin ha invaso uno Stato neutrale, l’Ucraina, stracciando una norma internazionale elementare, ovvero che non è possibile annettere il territorio di un paese vicino. Il modo in cui ha trasformato il sistema internazionale in questi tre mesi ha fatto venire meno i fondamenti sui quali poggiava la neutralità finlandese e svedese. Avvicina o allontana dalla fine del conflitto? Beh, il mondo è stabile – e la pace è stabile – se si parte da un elemento di realtà. Se invece si parte da un elemento di menzogna o autoinganno allora si determina una situazione che può esplodere in qualunque momento.
La Russia minaccia, ma è lei che ha creato queste condizioni di insicurezza e di certo non potremo tornare allo status quo ante. Mi lasci aggiungere un’altra cosa, che i russi fanno fatica a capire.
Che cosa?
La Russia in questi anni non ha attirato nessuno. Non ha alleati e nonostante la disponibilità di materie prime ha un’economia piccola. I paesi che guardano all’Occidente, all’Ue e alla Nato lo hanno fatto perché vi hanno visto il futuro e nella Russia post sovietica il passato. Attenzione, però: lo status di Mosca non lo stabiliscono Washington o Bruxelles, ma dipende da quello che il popolo russo riesce a fare. Lo status di grande potenza non viene riconosciuto da altre grandi potenze. Sono i paesi più piccoli a decretarlo quando guardano a un paese leader, da imitare e dal quale essere protetti.
In tutto questo ci sono anche aspetti immateriali che contano e sono i principi. I fondamenti del libero mercato, degli scambi internazionali o della proprietà privata non sono soltanto leggi. Sono leggi solide cui noi crediamo perché rispondono a principi ai quali aderiamo. Se smettessimo di crederci, non vi sarebbe norma scritta al mondo capace di farli valere. Nemmeno con la forza. Questo a Putin sfugge.
L’Europa, nel frattempo, cerca di riorganizzare le proprie forniture energetiche. L’unanimità delle prime sanzioni ha ceduto il posto ad alcuni distinguo sulla questione dell’embargo sul gas e sul petrolio con l’opposizione dell’Ungheria. Cosa prevede?
Il ruolo già modesto della Russia nel commercio diminuirà perché la scelta della Commissione europea di affrancarsi dalla dipendenza dalle forniture russe è una decisione presa e di lungo periodo. Inoltre, Mosca esporta beni che nel progetto Next Generation EU avranno sempre minor peso perché, a tendere, andremo verso un’economia ecologica, ad altissimo valore aggiunto. Se in Cina poi prevarranno le correnti cui facevamo prima riferimento, la divergenza con l’Europa, che ora esiste, sarà di breve durata e potrà affermarsi una nuova convergenza su basi più solide. Avremo una globalizzazione più selettiva, più profittevole, socialmente più equa ed ecologicamente sostenibile.
Per quanto riguarda Orban, gas e petrolio sono un pretesto. Il problema è che non riesce a stare in questa unione perché ha trasformato l’Ungheria in un sistema autoritario. È un problema che l’Ue dovrà affrontare, così come la Nato dovrà affrontare la questione della Turchia di Erdogan, che si oppone all’adesione di Finlandia e Svezia a causa dell’ospitalità data alle comunità curde nei due paesi. A tal proposito è importante sottolineare due cose.
Quali?
Nella politica internazionale non esistono scelte non rischiose. Trattare ad ogni costo oppure soltanto quando l’aggressore rinuncia a una serie di pretese sono opzioni che comportano egualmente dei rischi.
L’altro aspetto è che c’è un costo nel tenere in piedi un sistema internazionale fondato su alcuni principi. Di recente lo abbiamo imparato per la questione ambientale; allo stesso modo dobbiamo imparare che per sostenere un sistema internazionale che continui ad essere ospitale per le democrazie – che non sono la principale forma politica del pianeta ma sono la nostra forma politica – c’è un costo. In questo momento purtroppo dobbiamo pagarlo, anche attraverso le sanzioni.
Ci sono stati errori che l’Ue ha commesso nella relazione con la Russia di Putin?
Sicuramente. Il primo, macroscopico, è stato incrementare gli acquisti di gas, quando nel 2014 con l’annessione della Crimea era apparso chiaro l’obiettivo finale. Più in generale, l’errore è stato non aver riconosciuto l’inversione autoritaria di Putin, che progressivamente ha fatto sempre più ricorso alla violenza. Era sotto gli occhi di tutti ma abbiamo fatto finta di non vederlo. Infine, non dimentichiamo che la sottovalutazione della Russia ha due principali responsabili. Il primo è Gerhard Schröder, che da cancelliere ha firmato il contratto per l’apertura del gasdotto Nord Stream 2 e poco dopo la fine del mandato politico è diventato presidente della società incaricata di costruirlo. Dopo di lui, ancorata a una concezione ristretta dell’interesse tedesco, è arrivata Angela Merkel, che ha messo in letargo il progetto europeo in nome del quietismo. Lei che era la delfina di Helmut Kohl, il leader tedesco con la più grande visione europea, sinceramente convinto che l’interesse della Germania dovesse trovare una sintesi nell’interesse europeo.
Che ruolo stanno giocando, invece, gli Stati Uniti nel conflitto russo-ucraino?
Gli Stati Uniti stanno facendo quello che hanno dichiarato, ovvero tutto tranne che inviare i soldati in Ucraina. Molti vedono un’opposizione tra interessi americani ed europei e non dubito che ci possa essere una diversa sensibilità rispetto alla percezione di questa guerra. Ma a chi sostiene che gli Usa, pur di logorare la Russia, siano disposti a mettere a rischio l’Europa ricordo che lo status di grande potenza mondiale degli Stati Uniti deriva loro da una serie di rapporti politici, economici e finanziari privilegiati con l’Europa, istituzionalizzati da 70 anni. Sanno che se l’Europa diventasse debole, automaticamente anche gli americani diventerebbero più deboli nel mondo.
Qual è la posta in gioco per l’Europa?
Se Putin non verrà fermato l’Europa in poco tempo cesserà di esistere. La Commissione si è impegnata molto sulla questione e se diventa politicamente “non credibile” o perdente, nel breve periodo diventerà non credibile anche Next generation EU.
Se viene meno il peso della Commissione, automaticamente verrà meno la credibilità del sostegno che la Commissione e l’Europa danno a quella cosa che si chiama debito pubblico degli stati membri. O teniamo politicamente oppure perdiamo. E in quel caso chi sosterrà il debito pubblico italiano? Orban? Faccio fatica a crederlo.
(Intervista pubblicata sul numero di maggio dell’Imprenditore)