
Il 2015 è l’anno della ripresa, ma anche dell’Expo, l’anno in cui, nel concreto, parte la riforma di Confindustria, insomma, un anno con tanta carne al fuoco. Cominciamo da Expo: alla fine, tra polemiche, ritardi e miracoli ce l’abbiamo fatta…
Non avevo dubbi. Purtroppo, le polemiche e i ritardi sono un classico italiano, ma poi alla fine, fortunatamente, ce la caviamo sempre. Certo, avrei preferito arrivare all’apertura con maggiore tranquillità, ma il lavoro fatto è davvero superbo. Abbiamo avuto una capacità di recupero straordinaria. Expo sarà un’occasione irripetibile per il nostro paese. La possibilità di far vedere al mondo il meglio dell’Italia e della nostra industria. Confindustria ha scelto di esserci, di metterci anima e faccia: oggi celebriamo qui la nostra Assemblea; avremo numerosi incontri b2b con le delegazioni dei diversi Paesi che visiteranno l’Expo e abbiamo organizzato, insieme a dieci associazioni di categoria, una mostra sull’alimentazione industriale sostenibile, Fab Food. La fabbrica del gusto italiano.
Parliamo subito di Fab Food: come è nata l’idea della mostra?
Si tratta di un’iniziativa unica nel suo genere, che abbiamo messo in piedi con la collaborazione del Museo Nazionale della Scienza e della Tecnologia di Milano, che ha curato la realizzazione della Mostra, e con il ministero della Salute che è nostro partner istituzionale. Cultura, impresa istituzioni, uniti per un unico obiettivo: far vedere come sia possibile ottenere, rispettando l’ambiente e le risorse del mondo, prodotti alimentari sicuri, di qualità, a prezzi accessibili e in quantità sufficiente per tutti grazie proprio all’industria e alle sue tecnologie.
Con nessuna velleità di convincere, ma con la volontà di illustrare la proposta dell’industria per aiutare le persone ad accogliere in modo più consapevole una cultura non ideologica sull’alimentazione sostenibile, dove ognuno faccia la sua parte, senza soluzioni facili, ma con la piena fiducia nella scienza e nelle istituzioni. È una mostra multimediale che tratta un tema serio come quello della risposta al bisogno di cibo nel mondo con una equilibrata distribuzione: un percorso divertente, un po’ stile Luna Park, per far conoscere a ragazzi, famiglie e scuole la strada che i prodotti percorrono dal campo fino alle nostre tavole. E dimostrare come i progressi scientifici e tecnologici, se ben usati, possono migliorare la qualità e la sicurezza del nostro cibo. Questo per sfatare un mito negativo e anche un po’ ingenuo che circonda l’alimentazione industriale, che non solo permette di sfamare più persone, ma rende anche più sicuro quello che mangiamo. Inoltre, è una vetrina unica per il sistema produttivo italiano. Confindustria e Coldiretti sono le uniche associazioni ad avere uno spazio dedicato in Padiglione Italia. Fab Food è un modo leggero e divulgativo di trattare tematiche molto complesse. Crediamo sia giusto far arrivare il messaggio a tutti e non rimanere sempre confinati nella cerchia degli esperti e degli opinionisti. L’industria deve tornare a parlare alla gente. Noi lo abbiamo fatto. Con grande coraggio.
A proposito di tematiche complesse e cerchia di opinionisti, torniamo ad argomenti più “classici”. Per il 2015 una serie di congiunture favorevoli fanno sperare che siamo alla fine di questa lunga crisi. Nessuno però si sbilancia in previsioni troppo ottimistiche…
Ci sono tutta una serie di fattori esterni molto favorevoli che possono darci una buona spinta. È vero: prezzo del petrolio in calo, deprezzamento dell’euro rispetto al dollaro, il Quantative Easing messo in campo dalla Bce. Ma lo dico chiaramente: tutte queste condizioni da sole non sono sufficienti. Come lei stesso sottolinea, le previsioni rilasciate da vari istituti sono state sì riviste verso l’alto, ma i valori rimangono opportunamente prudenti, perché va considerato che l’Italia soffriva di lenta crescita ben prima della crisi. Certo, è indubbio che finalmente sentiamo allentare la morsa.
È sufficiente per dire che siamo fuori pericolo?
No. Purtroppo non lo è. Per due motivi: il primo è che non è detto che le cose vadano così, se non facciamo la nostra parte e comunque si tratta di tassi di crescita ancora troppo bassi, parliamo di uno 0,5-0,7%. Vorrei ricordare che noi con la crisi abbiano perso in media il 25% della nostra produzione, in alcuni settori abbiamo superato addirittura il 40%. Inoltre, noi non solo da molto tempo prima della crisi cresciamo a tassi bassissimi, ma siamo “arenati” da 15 anni. E con percentuali che sfiorano l’1% quando torneremo ad essere effettivamente competitivi? Anche perché, nel frattempo, il resto del mondo non è stato fermo. Negli Stati Uniti la crescita è attesa riprendere vigore; la Cina è in atterraggio pilotato, ma continuerà ancora a fornire il maggiore contributo alla crescita del Pil mondiale (33.0% nel 2015); le condizioni di Brasile e Russia sono difficili, ma non si aggravano. L’Eurozona è in progressivo miglioramento: noi dobbiamo assolutamente puntare a crescere di almeno, e sottolineo almeno, il 2% l’anno. Se non ci poniamo questo traguardo, che definirei minimo, tra qualche anno ci troveremo di fronte alla dura realtà di essere fuori dal novero delle grandi potenze economiche. Il nostro paese non se lo merita.
Secondo lei il governo ha chiara questa eventualità? È abbastanza ambizioso?
A Renzi va dato atto di aver impresso al paese una scossa salutare e di aver messo molta carne al fuoco. Ha annunciato e, in parte, poi avviato, una serie di importanti riforme che aspettavamo da anni. Però, mi sarei aspettato più coraggio dal Def.
Comprendo bene la prudenza nel valutare lo stato dei nostri conti pubblici e di tenersi quindi bassi con le previsioni. Comprendo meno bene l’incapacità di andare a prendere le risorse dove stanno e sono sempre state: nella spesa pubblica improduttiva e irrazionale. La spending review vera ancora non si è vista, l’emorragia delle società pubbliche locali non è stata fermata. Immaginiamo per non toccare punti critici in momenti elettorali delicati, come le elezioni regionali e amministrative che si tengono tra pochi giorni. Anche da quei risultati dipenderà l’impostazione della prossima manovra finanziaria. Anticipo da subito che al governo porremo la questione che senza risorse non arrivano investimenti pubblici e privati: è lì la chiave della ripresa. Investire è condizione necessaria.
Le campagne elettorali continue: possiamo fare una digressione su questo tema che non sembra economico, ma che invece è probabilmente dirimente. Come se ne esce secondo lei?
È vero. È assolutamente dirimente. È un male che da sempre affligge il nostro paese. Campagna elettorale perenne vuol dire non affrontare mai i nodi veri, quelli che scontentano.
E credo se ne esca con una legge elettorale e un assetto istituzionale che garantisca una maggioranza solida, in grado di pianificare per almeno 5 anni, e con una fluidità e rapidità nel passare all’attuazione dei provvedimenti. Non si può fare una seria politica economica vivendo alla giornata e con veti incrociati di tutti i tipi.
Quali sono i nodi che scontentano? E Renzi come si è mosso in questo periodo?
Renzi ha fatto cose importanti, affrontando con coraggio anche uno scontro tutto interno alla sinistra. Mi riferisco, in particolare, alla riforma del lavoro, ma anche a quella della Pa. Il decreto Poletti e il Jobs Act sono due interventi di rilevanza strategica e di forte rottura rispetto al passato: un percorso che adesso va portato compiutamente a termine.
Il Jobs Act è stato un grande successo per le imprese e per Confindustria. E non perché lo abbiamo scritto noi, come qualcuno ha detto per seminare veleni, ma perché – a differenza di altri – abbiamo contribuito, già due anni fa, con una proposta organica che andava a toccare da una parte, la flessibilità in uscita e, dall’altra, il tema della ricollocazione di chi perde il lavoro, quindi degli ammortizzatori sociali. Adesso abbiamo un mercato del lavoro più moderno e inclusivo, che permette ai giovani di avere un contratto decente e tutelato, conveniente anche per le aziende che hanno margini di manovra più ampi sulle assunzioni e usufruiscono di importanti sgravi. Si è fatta un po’ di pulizia, avvicinandoci a quanto accade negli altri paesi europei.
Perché sul Jobs Act i sindacati sono stati così contrari?
Ho affrontato il mio mandato di presidenza nella convinzione che un dialogo costruttivo con le parti sociali potesse essere utile per la modernizzazione del paese. Una convinzione che ci ha portato a sottoscrivere e attuare un accordo storico, quello sulla rappresentanza, che costituisce la premessa per avere accordi esigibili. Questo dialogo, ma soprattutto il processo per la definizione di un sistema di relazioni industriali solido e affidabile, si è affievolito negli ultimi tempi, e non per nostra responsabilità.
Abbiamo davanti passaggi chiave per la nostra industria: dobbiamo recuperare tempo, produttività, competitività.
Il Jobs Act va nella direzione giusta: adesso tocca a noi. L’accordo sulla contrattazione aziendale firmato nel 2009 è scaduto, ci sono una serie di rinnovi importanti in molti settori. Servono regole radicalmente nuove nella contraddizione collettiva. Bisogna rivedere il modello contrattuale per assicurare certezza dei costi, non sovrapponibilità dei livelli di contrattazione e per legare strettamente retribuzioni e produttività. È un impegno importante che, se portato a termine, ci consentirà davvero di realizzare un progresso nella storia delle relazioni industriali.
La riforma del lavoro avrà effetti positivi sull’occupazione?
Me lo auguro. Adesso è difficile quantificare. Il governo ha fatto una prima stima, positiva. Però anche qui, non basta cambiare le regole. Se non riparte la domanda interna, se non ripartono gli investimenti, il Jobs Act resta una bella cornice con dentro il nulla. Lo ribadisco: gli investimenti pubblici e privati sono l’unica chiave. Gli Stati Uniti, con politiche di spesa pubblica “buona” sono usciti dalla crisi prima e meglio di noi. Nel 2014 il Pil americano ha superato del 10,1% il livello pre-crisi, mentre quello dell’area euro è stato dello 0,9% inferiore, anche in ragione delle diverse politiche di bilancio adottate.
Quali sono le riforme che mancano?
Innanzitutto quella fiscale. A fine aprile sono stati approvati i primi tre decreti attuativi, che riprendono molte delle nostre proposte. Si è così finalmente ripreso quel percorso di riforma volto a rifondare il sistema fiscale secondo principi di equità, certezza e stabilità delle regole: una tappa obbligata se si vuole modernizzare il paese, rendendolo normale e capace di attrarre investimenti. Purtroppo, non solo la pressione fiscale sulle imprese è ancora a livelli molto alti, ma ci sono tasse più o meno occulte davvero incomprensibili. Una su tutte, l’Imu sui cosiddetti imbullonati, cioè i macchinari fissati a terra nei capannoni. Una tassa insensata e antimpresa che sta scoraggiando molti investimenti e contro la quale tutto il sistema si è mobilitato.
Poi manca quello che è da sempre per me il problema dei problemi, tanto che ne ho fatto una bandiera della mia presidenza: lo snellimento della macchina burocratica che resta lenta ed elefantiaca. Il governo ha avviato una riforma della Pa che va nella giusta direzione e contiene misure che le imprese suggerivamo da tempo in termini, ad esempio, di processo decisionale (vedi Conferenza Unificata) o di permessi (migliorando la Scia). Abbiamo intenzione di avviare un road show sul territorio in collaborazione con la Funzione pubblica per verificare i risultati e le esigenze delle imprese. Ma voglio ribadire che su questo fronte c’è ancora molto da fare, da sfoltire e razionalizzare. E poi voglio citare ultimi, ma non meno importanti, gli interventi in materia di ambiente e infrastrutture.
C’è molta ideologia e molto “rumore” su questi temi, ma poi, nel concreto?
Nel concreto, in tema ambientale, continuiamo a riscontrare un atteggiamento miope, antimpresa che non solo rischia di non portare i risultati sperati in termini di minore impatto ambientale, ma rischia di scoraggiare o addirittura inibire del tutto l’attività industriale. Mi chiedo se questo significa garantire nel futuro un corretto rapporto tra tutela ambientale e sviluppo industriale.
Per quanto riguarda le infrastrutture, tema centrale, centralissimo per la ripresa, purtroppo le polemiche su corruzione e ritardi occupano più spazio della realizzazione e dell’avvio dei lavori. Bisogna, da un lato, rendere più semplici le procedure, per evitare quei fenomeni di corruzione che si annidano spesso proprio nella proliferazione incongruente della normativa; dall’altro, far ripartire i cantieri, e in maniera spedita. Dobbiamo smetterla di programmare opere gigantesche, che poi non si fanno e determinano solo spreco di risorse. È necessario invece far partire le opere immediatamente cantierabili, e soprattutto dovremmo essere in grado di mettere in campo un piano per il dissesto idrogeologico. Ecco, quella sarebbe una scelta di rispetto vera dell’ambiente che potrebbe anche dare impulso a un ciclo economico sano.
Mancano dodici mesi alla fine del suo mandato: cosa ha significato fare il presidente di Confindustria?
Una grande responsabilità e un onore. Essere stato scelto dagli imprenditori italiani per fare il loro presidente è stato un vero onore e ho dato il massimo. La difficoltà del momento che vivevamo mi ha caricato di una enorme responsabilità, spero di avere condotto Confindustria fuori dalle secche della crisi economica. Purtroppo molte aziende si sono arenate, ma la maggior parte ne sta uscendo. Mi permetta di ricordare quegli imprenditori che a causa della tempesta economica di questi anni, scorati dalle difficoltà, si sono tolti la vita. Personalmente ricorderò questi anni come un’esperienza entusiasmante, ma anche molto difficile, che ha richiesto uno sforzo fisico ed emotivo enorme, inaspettato, ma ne è valsa sicuramente la pena.
Vado fiero di aver riportato al centro del dibattito l’industria: si è tornati a parlare di difesa e valorizzazione della cultura d’impresa, di politica industriale. Sono anche orgoglioso di essere venuto a capo, dopo anni e anni, della vicenda dei debiti della Pa. È stata un’ossessione per me, perché la trovavo un abominio in un paese civile. Come pure sono orgoglioso di avere imposto la necessità di una nuova organizzazione del Sistema, che ha dato vita, sotto la mia presidenza, alla riforma Pesenti.
Nella più profonda crisi vissuta dal dopoguerra a oggi e in un immobilismo paralizzante per il paese, abbiamo avviato una riforma seria e profonda. Cambiare non è mai facile. Anzi, è faticoso e un po’ innaturale. Ma il cambiamento fa parte del nostro dna di imprenditori: e questo dna ha prevalso. Potevamo ergerci a difensori d’ufficio dell’associazionismo o trincerarci nelle nostre rassicuranti convenzioni. Abbiamo scelto di uscire dal passato e costruire una strada nuova. E lo abbiamo fatto subito. Ci siamo dati nuove regole per essere ancora più forti nell’azione di tutela e di sviluppo dell’industria e posso dire che, anche grazie a questa nostra azione, oggi c’è un po’ più di industria nel cuore e nella mente degli italiani e di chi ci governa.