IL CASO PRATO
Il ritrarsi dell’onda della Grande Recessione sta riportando in primo piano le “cose” che, in questi anni, sono state tenute sommerse dalle grandi aggregazioni delle analisi macroeconomiche e dalle urgenze delle politiche di stabilizzazione. Nell’inevitabile pendolo imposto dai fatti è, dunque, tornata l’ora degli economisti industriali e il Centro Studi Confindustria non avrebbe potuto dimostrare miglior senso del tempo quando, nel 2017, ha varato uno specifico programma di ricerca sulle trasformazioni strutturali del nostro sistema manifatturiero e investito il proprio capitale di influenza e di relazioni per chiamare a raccolta e a confronto la relativa community.
Nella due giorni del 31 maggio e primo giugno, organizzata in collaborazione con la Cassa di risparmio di Pistoia e della Lucchesia del Gruppo Intesa Sanpaolo, una sezione è stata dedicata alle “trasformazioni del territorio manifatturiero” e, in questo ambito, uno specifico approfondimento ha riguardato il “caso Prato”. Non si è trattato di un omaggio legato alla contiguità territoriale – Pistoia e Prato distano pochissimi chilometri – ma di oggettivo e perdurante interesse per un sistema industriale che da molti decenni continua ad attirare, per le sue caratteristi- che e vicende, un’attenzione particolare da parte del mondo della ricerca economica applicata. Non c’è dubbio, infatti, che Prato abbia rappresentato l’esempio paradigmatico della forza e del peculiare profilo dello sviluppo industriale dei territori della “terza Italia”, così come, dall’inizio del nuovo secolo, lo sia stato dei suoi processi di ristrutturazione e, più recentemente, di quelli di assestamento e faticosa ripresa. Poiché su queste difficoltà è fiorita una “vulgata revisionista” che ha rimesso in dubbio la reale consistenza della precedente fase di sviluppo, la relazione si è fatta carico di sottolineare la micidiale convergenza di fattori esogeni di crisi che hanno cambiato il panorama competitivo davanti al sistema tessile pratese. In particolare, parliamo dell’accelerato contrarsi della domanda di prodotti lanieri cardati – cuore storico delle produzioni pratesi – legato al rapido affermarsi di prodotti sostitutivi (tipicamente i piumini al posto del cappotto); il rapidissimo affermarsi di colossi della distribuzione con modelli di business, sostenuti da straordinarie capacità di gestione di catene globali di fornitura e capaci di “coniugare gli opposti”, ovvero prezzi contenuti, proposte moda continuamente rinnovate e grande esperienza di consumo; l’avanzata competitiva della Cina e degli altri emergenti. Un fatto notevole della ristrutturazione pratese si riscontra nel trade-off tra la sua rilevanza macro (nei dieci anni tra i censimenti del 2001 e del 2011 sono stati distrutti oltre il 50% dei posti di lavoro diretti nel settore tessile locale) e l’apparente irrilevanza di conseguenze, sul piano micro, del profilo organizzativo del sistema: sia le dimensioni orizzontali che quelle verticali delle imprese finali sono, infatti, rimaste nella crisi sostanzialmente invariate. In particolare, nella divisione verticale del lavoro che ha storicamente caratterizzato il distretto pratese, le imprese finali hanno conservato il proprio profilo (primo ossi- moro) di “imprese di produzione senza macchine” – focalizzate in modo esclusivo sulle operazioni di design, commerciali, acquisto delle materie prime, coordina- mento del ciclo produttivo – e le imprese conto-terziste di fase (filature, orditure, tessiture, tintorie, finissaggi) hanno man- tenuto quello (secondo ossimoro speculare) di “imprese di servizi di produzione”, depositarie in via esclusiva dei processi di trasformazione tecnico-fisica. Questa configurazione, che sta alla base delle famose economie esterne localizzate, e quindi dei vantaggi competitivi del distretto, implica una straordinaria complessità transazionale e la sua riproduzione virtuosa ed equilibrata non può essere data per scontata. In particolare, il timore è che l’eventuale perdurare di condizioni esterne di variabilità finisca, pur con l’addolcimento degli anni più recenti, per modificare gli incentivi delle imprese in capo alle quali ricadono gli oneri e i rischi degli investimenti fissi, ovvero quelle terziste, inducendole a contenerli o, peggio, a congelarli con la conseguenza di porre il distretto su traiettorie competitive più povere. Ciò che negli anni della crescita è stato considerato naturale, perché era consentito da condizioni esterne (espansione dei mercati) e locali di sistema (efficienza dei mercati intermedi), deve forse essere oggi più presidiato e garantito da una progettazione interna consapevole. Come? Ridefinendo i rapporti di filiera tra imprese finali e imprese terziste e quindi ribilanciando il grado di integrazione/disintegrazione verticale, in modo da tenere insieme esigenze di flessibilità (imprescindibili nel mondo della moda) e incentivi a investire e differenziarsi. Non è un compito semplice, ma è ciò di cui gli imprenditori pratesi stanno discutendo e che forse stanno già facendo, sia pure in un modo non ancora statisticamente rilevabile. In generale, quello della progettazione consapevole o, se si vuole, della politica industriale locale è un tema più forte oggi di quanto non fosse negli anni della crescita per i distretti colpiti da shock e bisognosi di tenere la barra dritta.