Da qualche mese la Germania è diventata uno dei principali bersagli della guerra commerciale lanciata da Donald Trump, che fino ad oggi ha prodotto molta incertezza sui mercati e reso freddi, in modo inedito da parecchi decenni a questa parte, i rapporti politici tra le due sponde dell’Atlantico. C’è chi pensa che questo attacco alla forza economica e commerciale tedesca, prima rivolta al settore metallurgico e più di recente a quello dell’automotive, possa liberare spazi di crescita per il nostro Paese a discapito dei concorrenti tedeschi. Ma le cose non stanno così. Innanzitutto perché l’Italia e la Germania parlano una sola voce nelle trattative commerciali con il resto del mondo, quella dell’Unione europea.
Non ci sono spazi per negoziare clausole più favorevoli per il nostro Paese rispetto agli altri partner europei, a meno di non farlo in palese violazione dei trattati comunitari e quindi disconoscendo la nostra stessa appartenenza alla Ue.
Entrambi i sistemi di produzione sono poi fortemente integrati tra di loro nelle catene globali del valore (GVC), il che rende il destino dei sistemi manifatturieri dei due paesi strettamente interconnesso. Infatti, l’economia italiana e quella tedesca sono specializzate in fasi diverse ma complementari delle filiere internazionali di produzione: relativamente più a monte quella italiana, ossia come fornitore di semilavorati e componenti, e relativamente più a valle quella tedesca, cioè più vicino agli acquirenti di beni finali. Entrambe le economie si trovano in una posizione di forza contrattuale lungo la catena globale del valore, poiché le attività a maggiore contenuto di valore aggiunto si collocano tipicamente proprio ai due estremi delle filiere.
Dal punto di vista commerciale la Germania è il primo partner per l’Italia sia per l’export che per l’import, con il valore dei beni esportati in Germania che rappresentano un quarto di quanto esporta l’Italia in tutte le economie dei G10 (quota invariata dal 2000). L’Italia a sua volta rappresenta il quinto mercato di destinazione per la Germania e il settimo come fonte di importazione (il terzo se consideriamo solo le economie del G10). Si tratta nella maggioranza dei casi di commercio di beni intermedi e d’investimento,
quindi di scambi che avvengono prevalentemente tra imprese. Ciò vale in entrambe le direzioni degli scambi: da una parte il valore aggiunto manifatturiero italiano attivato dalla produzione tedesca (dato dai semilavorati italiani incorporati nei beni finali tedeschi esportati) e, dall’altra, il valore aggiunto tedesco incorporato nei manufatti finali italiani. Ne emerge che la Germania è sia il principale attivatore del valore aggiunto italiano, sia il principale beneficiario della domanda italiana di prodotti finali e intermedi. Si tratta di una relazione bilaterale da cui entrambi i paesi traggono grandi vantaggi: la Germania perché beneficia dei progressi tecnologici e dei guadagni di produttività realizzati dai fornitori italiani, l’Italia perché trattiene dentro i propri confini i saperi e le competenze che sono alla base dell’upgrading qualitativo e tecnologico delle sue produzioni.
Il forte legame tra le due economie è rappresentato anche dalla presenza incrociata delle rispettive multinazionali. Quasi duemila quelle tedesche in Italia, che rappresentano il 14% delle imprese a controllo estero attive sul nostro territorio nazionale e che contribuiscono allo 0,9% del nostro Pil attraverso il loro valore aggiunto.
Poco meno di 1600 quelle italiane in Germania, il 6% del totale attivo in quel paese, con un valore aggiunto prodotto pari a poco più dello 0,3% del suo Pil.
Dopo la crisi del 2008, che ha duramente colpito i sistemi industriali di entrambi i paesi, i volumi dell’export sia italiano sia tedesco sono tornati a crescere, anche se il nostro trend è rimasto, come negli anni precedenti, di molto inferiore al loro.
La performance estera italiana è stata però nettamente migliore di quella tedesca nella dinamica della qualità dei beni esportati. Queste differenze sottendono modelli diversi (ma non incompatibili) di organizzazione della produzione: verticalmente integrato e fondato su economie di scala quello tedesco, verticalmente frammentato e fondato su economie di specializzazione quello italiano. Insomma, l’industria italiana e quella tedesca sono diventate nel tempo partner sempre più strategici nella competizione globale e rappresentano un modello virtuoso di integrazione economica, in cui dall’unione delle diversità deriva un reciproco arricchimento.
Un modello che oggi più che mai siamo chiamati a difendere, di fronte all’ondata nazionalistica che monta in tutto il continente e che rischia di travolgere le istituzioni comunitarie nella prossima primavera, in occasione delle elezioni per il rinnovo del Parlamento europeo.
L’industria italiana e quella tedesca sono diventate nel tempo partner sempre più strategici nella competizione globale e rappresentano un modello virtuoso di integrazione economica