Festività non fa più rima con “leggerezza”. O meglio, non solo. In tema di brand – nel mutevole linguaggio del marketing – le cose stanno cambiando: le nuove campagne dei più noti marchi sul mercato, e di centinaia di realtà minori, virano sempre più verso l’attualità e il sociale anche nei periodi tradizionalmente “votati a operazioni light” come Natale, carnevale, Pasqua o le vacanze estive. Momenti dell’anno ghiotti per le aziende, dove gli esperti di settore sono soliti proporre piste di visibilità particolari per i propri prodotti e servizi. La ragione è semplice e richiama un concetto che l’inglese esprime molto bene: consistency. La coerenza nell’interpretare fasi storiche nel giusto modo, senza apparire fuori luogo e fuori tempo. Insomma, senza essere inopportuni.
PUBBLICITÀ SÌ, MA CON GIUDIZIO
Le ultime festività natalizie lo hanno dimostrato concretamente, a partire dagli spot in tv: tra il peso del conflitto in Ucraina, le incertezze legate al caro energia, il caro-prezzi e l’ombra del Covid con le sue possibili ulteriori varianti, c’è poco spazio per toni scanzonati. Marketer e comunicatori sono compatti nell’adottare approcci più seri e focalizzati, con equilibrismi non banali nel tenere alto lo spirito e garantire comunque il sorriso.
È il caso della Lego – un marchio tra i tanti, adorato da più generazioni e che di recente ha anche lanciato una linea di abbigliamento – che nello spot diffuso a dicembre ha scelto come testimonial la cantante Kate Perry: la star, circondata nel video da un gruppo di bambini, invita a costruire una versione migliore del mondo, tra contesti reali e fantasiosi. Una sfida collettiva, che in modo giocoso invita ad una maggiore presa di coscienza di alcune complessità reali: con il progetto “Lego build to give” (cui si aggancia l’hashtag #BuildToGive creato per i Social) l’azienda danese si impegna a donare fino a due milioni di set di mattoncini a bimbi che si ritrovano in condizioni di difficoltà e sofferenza negli ospedali o negli istituti di assistenza.
Un esempio che dimostra come la tendenza ormai in atto nel mondo sia sempre più radicata anche in Italia: nulla vale più dell’impegno effettivo di un’azienda e delle sue persone verso la società. Il prodotto/servizio che si punta a promuovere viene dopo, molto dopo. Le finalità di business dell’impresa scompaiono, quantomeno all’apparenza, per dare ampio spazio ad altre priorità. Quello che deve emergere è sempre (e a volte solo) la missione. Come “addetti ai lavori” dobbiamo rendere tangibile il nostro why.
QUESTIONE DI REPUTATION
Sono finiti i tempi in cui la reputation delle grandi corporate era misurabile in termini di relazione diretta con i rispettivi prodotti, servizi, e la loro immagine nel cuore dei consumatori. All’alba del 2023 la strada maestra per ogni azienda è quella di incontrare i bisogni e le emozioni di un target consapevole e socialmente “impegnato” come i Millennials, fidelizzando la Generazione Z. D’obbligo – se si vuole restare competitivi su un mercato ormai denso di player di valore – prendere una posizione su temi come integrazione, ecologia, giustizia sociale, uguaglianza.
Un cambiamento di rotta avviato molto tempo fa dal guru del marketing Philip Kotler e Christian Sarkar nel best seller “Brand Activism. Dal purpose all’azione”, dove si marca la valenza del purpose, la dimensione etica dietro la mission aziendale. Una scelta identitaria che porta il focus su argomenti sensibili per l’opinione pubblica.
In concreto, il passaggio all’azione vera e propria avviene quando il brand scende in campo: quando decide di mostrare sui propri manifesti il viso in primo piano di Colin Kaepernick (giocatore professionista di football americano discriminato e sospeso a causa delle sue posizioni politiche, ndr), oppure quando Lush Cosmetics e Patagonia scelgono di chiudere i loro negozi al dettaglio per aderire agli scioperi contro i cambiamenti climatici promossi da Greta Thunberg.
Succede quando la casa di scarpe in tela Toms impegna a donare un paio di scarpe ai più bisognosi, per ogni paio venduto. E così via. Come dire: ci assumiamo la responsabilità di questa azione, ci battiamo per il bene comune. Ne siamo portatori (e tu cliente, se appoggi questo ci sostieni, sei dei nostri).
“Tra le incertezze economiche globali, quest’anno le consuete celebrazioni saranno ricordate in un modo completamente diverso dai brand. Infatti la quasi totalità delle campagne prova a rispecchiare il difficile periodo per non apparire grossolanamente fuori dal mondo”, ha scritto Amy Houston sul magazine americano The Drum, una delle bibbie del marketing contemporaneo.
PRIMA I FATTI, POI I PROCLAMI
Hanno successo le campagne che promuovono raccolte fondi e iniziative solidali, assicurandone rendicontazione all’utente o elementi utili a comprenderne la serietà. Giammai attribuirsi azioni virtuose se queste non sono tracciabili nei fatti: è chiaro da tempo che i proclami non seguiti da azioni effettive presto o tardi si rivelano boomerang. Da sempre le operazioni capaci di generare numeri impattano nell’audience più di tante parole e fidelizzano le persone.
Ormai è chiaro: bisogna muoversi con cautela e competenza davanti al nuovo pubblico, perché il target è sempre più esigente e socialmente impegnato: nel nuovo corso – che interessa la multinazionale come la più piccola impresa di provincia – le insidie sono dietro l’angolo. Quando si traduce in azioni coerenti e sostenibili, infatti, l’approccio ingaggia gli stakeholder e contribuisce a costruire un brand credibile e forte. Se però emergono “operazioni di facciata” (e quando accaduto chi guidava il marketing non ha vissuto bei momenti) non funziona: gli utenti devono fidarsi, rispecchiarsi nei valori comunicati e sposare la buona causa dell’azienda. È possibile se si rendono fruibili e comprensibili contenuti e concetti molto complessi a target molto disomogenei e non necessariamente specialistici.
SOSTENIBILITÀ E GREENWASHING: UN ESEMPIO DI FLOP
Un esempio di flop si lega alla cosiddetta trappola del greenwashing: ci incappa l’azienda che decide di comunicare un impegno ambientale e sociale che poi non corrisponde alla realtà, con il solo obiettivo di sfruttare la forza persuasiva della comunicazione.
Un possibile duro colpo alla reputazione e credibilità del marchio, cui stare alla larga adottando da subito un reale salto di paradigma nel modo di fare impresa. Ma deve coinvolgere tutti: dal ceo dell’azienda fino all’ultimo suo collaboratore.
(Articolo pubblicato sul numero di febbraio dell’Imprenditore)