Agli occhi di molti imprenditori la Libia appare un paese difficile. Lei vi opera dal 2010. Cosa ne pensa?
Per prima cosa dico che è fondamentale restare. Un’azienda italiana che non includesse la Libia nelle proprie strategie sarebbe un’azienda miope. Fino a sei anni fa il paese aveva tassi di crescita molto elevati e una domanda interna in aumento, determinata anche dalle numerose comunità straniere che vi si sono stabilite: egiziani, tunisini, nigerini e in tempi recenti anche filippini e indiani. Non c’era settore che non offrisse possibilità: energia, costruzioni, sanità. Con la mia azienda, la Vuetel, avevo stretto accordi con la principale compagnia telefonica locale, diventando uno dei loro partner di riferimento. Con le rivoluzioni si è interrotto tutto.
E come si è mosso dopo?
Noi siamo una società di servizi di telecomunicazioni internazionali, forniamo il trasporto del traffico dati e telefonico. Da mesi stiamo lavorando con la compagnia elettrica libica per ricostruire la rete di comunicazione, danneggiata dalla guerra, e rimettere in piedi un servizio dati rivolto non solo al mercato locale, ma anche a tutti coloro che hanno rapporti con la Libia. Basti pensare alle compagnie petrolifere che hanno stabilimenti nel paese e dunque necessità di trasferire una grande mole di informazioni sulla produzione alla casa madre.
Un consiglio ai colleghi.
Con la Libia il sistema imprenditoriale italiano deve avere una visione di lungo periodo. È un paese che può portare la pace in tutta l’area del Mediterraneo e del Medio Oriente, a patto di saperne cogliere il valore. L’Italia è solo uno degli attori in gioco, ma forse è quello che meglio di tutti può farlo. La Libia non è solo Serraj o Haftar, esistono numerose rappresentanze locali che all’epoca convivevano sotto l’egida di Gheddafi. Riconoscerle, come sta facendo il governo italiano tramite una fitta serie di incontri con i sindaci, è strategico. Resto scettico, invece, rispetto all’approccio di Macron o degli inglesi, che hanno un atteggiamento più opportunistico. Noi, invece, abbiamo il dovere di fare sì che gli interventi internazionali siano finalizzati a mantenere l’integrità del paese.
Lei viene da Telecom e nel 2008 ha fondato la sua azienda. Perché ha puntato sull’Africa?
Per tre motivi. Il primo è che il nostro è un mercato fatto da giganti: Orange, Tata, Belgacom. Potevamo avere una chance solo focalizzandoci su una nicchia come quella africana, dove occorre una capacità di dialogo presente solo in parte nei colossi mondiali. Per il resto, la popolazione è in aumento, a fronte di una densità telefonica ancora bassa. Le prospettive di espansione sono quindi notevoli, così come i margini di redditività