I meeting annuali del FMI e della Banca mondiale
Nella settimana dal 14 al 20 ottobre si sono tenuti a Washington D.C. gli Annual Meetings del Fondo monetario internazionale (Fmi) e della Banca mondiale, uno degli appuntamenti più importanti dell’anno per fare il punto sullo stato dell’economia globale e capire l’indirizzo che prenderanno le politiche economiche.
Agli eventi delle due istituzioni, cui ho avuto modo di partecipare, fanno da contorno quelli ufficiali del G7 e del G20, nonché una miriade di incontri di affari, soprattutto della comunità finanziaria proveniente da tutte le parti del mondo. Quest’anno si sono contati 2.800 delegati dai paesi membri, 350 organizzazioni osservatrici e 800 membri della stampa, senza considerare le persone giunte per gli incontri B2B.
L’appuntamento rivestiva particolare importanza sia per la fase congiunturale molto delicata, che abbraccia tutti i continenti, che per il cambio al vertice del Fondo monetario, dove la francese Christine Lagarde, chiamata a sostituire Mario Draghi alla guida della Bce, il 1° ottobre ha lasciato l’influente poltrona di Managing Director alla rumena Kristalina Georgieva.
Il quadro macroeconomico
Nel suo tradizionale World Economic Outlook il Fondo ha confermato quanto anticipato qualche settimana prima dall’Ocse a Parigi, ovvero il “rallentamento sincronizzato” delle principali aree economiche (synchronized slowdown).
Per quest’anno la stima di crescita del Pil mondiale si ferma al 3%, la più bassa dopo l’uscita dalla Grande Crisi. Sebbene per il 2020 sia previsto un recupero (3,4%), grazie alla migliorata performance delle economie emergenti, si tratta di uno scenario preoccupante che fa temere una fase di bassa crescita prolungata.
Il protrarsi della guerra dei dazi tra Stati Uniti e Cina e lo stallo sulla soluzione della Brexit stanno esercitando effetti depressivi sul commercio mondiale e sulla crescita, anche attraverso un aumento del grado di incertezza.
A ciò si aggiunge il rallentamento più forte del previsto di alcune grandi economie, segnatamente la Cina, la Germania e l’Italia. La nostra economia resta in Europa il fanalino di coda, con una crescita che si conferma nulla quest’anno e non supererà lo 0,5% nel 2020. In questo quadro non mancano alcune note positive, ad esempio i continui progressi dell’economia Greca o le migliorate prospettive in paesi a rischio default come l’Argentina e la Turchia.
La stabilità finanziaria sistemica
I principali timori emersi a Washington hanno riguardato, oltre alla debolezza del ciclo, i rischi per la stabilità finanziaria.
Le politiche monetarie ultraespansive condotte tanto a lungo dalla Fed americana e dalla Bce di Francoforte – e ancor prima dalla Banca centrale del Giappone – hanno avuto e stanno avendo tutta una serie di effetti indesiderati, descritti molto bene nell’altro documento del Fmi, il Global Financial Stability Report. Quello più evidente è dato dalla ricomposizione dei portafogli degli investitori istituzionali verso titoli maggiormente rischiosi pur di conseguire un rendimento positivo. Si stima che la massa dei titoli a rendimento negativo abbia raggiunto i 15 trilioni di dollari, circa il 25% del totale in circolazione. La ricerca di rendimenti positivi ha dirottato molti investitori verso i più redditizi mercati emergenti, i quali restano così vulnerabili a repentine fughe di capitali. Inoltre diversi mercati, sia azionari che immobiliari, sono chiaramente sopravvalutati e si temono bolle speculative che potrebbero dirompere nel caso di una forte inversione del ciclo economico.
Infine, i livelli di indebitamento, pubblico e privato, sono generalmente molto elevati. Diversi indicatori di rischio sistemico hanno oramai raggiunto gli stessi livelli osservati nel picco della Grande Crisi.
Il dollaro e le valute digitali
Tra i tantissimi altri temi affrontati a Washington – dalle politiche per lo sviluppo dei paesi più poveri alle catene globali del valore, dall’eguaglianza di genere al cambiamento climatico – grande attenzione è stata riservata al ruolo del dollaro come principale valuta di riserva. La moneta americana è ancora dominante negli scambi e nelle transazioni cross border. In una situazione di grave tensione finanziaria, come successo durante la Grande Crisi, le banche internazionali – le quali regolano molte delle proprie operazioni in dollari – possono diventare restie a concedere prestiti nella valuta statunitense, provocando un effetto domino che si ripercuoterebbe sull’economia reale.
Il governatore della Bank of England, Mark Carney, ha proposto l’adozione di una “cryptovaluta” mondiale per ovviare a questo problema. Proprio le criptovalute e, in generale, i pagamenti digitali sono da tempo al centro dell’attenzione delle autorità monetarie, vista anche la proliferazione che si osserva in giro per il mondo da parte sia di operatori privati che di Stati.
Alle monete digitali vengono riconosciuti vantaggi per il sistema dei pagamenti, soprattutto a beneficio delle fasce più disagiate della popolazione. Tuttavia esse preoccupano i banchieri centrali, che temono di perdere il controllo dell’offerta di moneta, e le varie autorità di regolamentazione, che paventano utilizzi impropri o fraudolenti dei circuiti digitali. Il dibattito resta aperto.
La ricetta per scongiurare una nuova crisi
La fase è indubbiamente molto delicata e il ‘consensus’ raggiunto a Washington richiama i paesi membri alla massima cooperazione e ad attuare in casa propria un equilibrato mix di interventi. La prima cosa da fare sarebbe quella di rimuovere i maggiori fattori di incertezza, ovvero raggiungere quanto prima un accordo commerciale tra Stati Uniti e Cina e assicurare una soft Brexit. Al momento però non vi sono garanzie che ciò possa verificarsi, almeno a breve termine. Questo comporta che le politiche monetarie dovranno mantenersi molto accomodanti. E del resto le attese dei mercati e gli stessi annunci delle banche centrali proiettano i tassi bassi o negativi ancora molto in là nel tempo.
Due dovranno essere i fattori di compensazione alle stance monetarie ultraespansive. Il primo è rafforzare le misure ‘macroprudenziali’, che regolando il comportamento delle banche e degli altri operatori finanziari contribuiscono ad attenuare i rischi sistemici.
L’altro è fare maggiormente leva sulle politiche fiscali, che dovranno essere espansive laddove vi sono margini disponibili, come nel caso della Germania, mentre in altri casi si potrà valutare una maggiore gradualità nel processo di consolidamento fiscale.