Giuseppe Schlitzer, economista indipendente e docente presso l’Università Cattaneo – LIUC
L’Italia è entrata in recessione. Lo confermano gli indicatori ‘tempestivi’ della congiuntura, che avvalorano le più pessimistiche previsioni circa lo stato della nostra economia. Nel giro di un anno abbiamo assistito a un totale ribaltamento delle stime di crescita del nostro Pil. Ad aprile 2018 l’ultimo Documento di economia e finanza (Def) del ‘governo Gentiloni’ indicava per il 2019 una crescita dell’1,4%. A dicembre il nuovo governo in carica portava la previsione all’1,0%, ma già a gennaio di quest’anno Banca d’Italia e Fondo monetario internazionale (Fmi) ridimensionavano il dato a 0,6%. Finché non è arrivata l’ultima Survey dell’Ocse sul Belpaese, pubblicata lo scorso 1° aprile, che ha stimato un preoccupante -0,2%.
Nel Def approvato dal Consiglio dei ministri il governo sembra aver finalmente preso atto della situazione, indicando un modesto 0,1% come stima di crescita ‘tendenziale’ per il 2019; valore che tiene conto delle misure già varate, come il reddito di cittadinanza, che si presume avranno effetti di stimolo sui consumi.
Unitamente al Def il governo ha approvato alcune misure a sostegno degli investimenti privati e delle amministrazioni territoriali, nonché di semplificazione delle procedure per le opere pubbliche, che non è possibile valutare in questa sede ma che porterebbero il dato allo 0,2% (cosiddetta previsione ‘programmatica’).
Le cause interne ed esterne
In questi mesi si è dibattuto a lungo sulle cause del brusco rallentamento della nostra economia. Senza dubbio tra queste vi è il peggioramento della congiuntura internazionale, a sua volta dovuta a un complesso di fattori. In primis la guerra commerciale tra Stati Uniti e Cina e il rallentamento della crescita nei mercati emergenti. Sempre la Cina ha visto scendere la dinamica del Pil intorno al 6% anche per effetto della politica di ‘deleveraging’ messa in atto dalle autorità per ridurre l’eccessivo stock di debito privato.
In Europa si sono fatti sentire in modo particolare lo stallo sull’accordo per la Brexit, il crollo delle immatricolazioni di auto in Germania, le tensioni in Francia legate alle proteste dei ‘gilet gialli’. In mercati fortemente integrati tutti questi fenomeni si amplificano tramite riduzioni dell’interscambio commerciale. Nel caso dell’Italia conosciamo peraltro il ruolo che rivestono la Germania e la Francia quali mercati di sbocco per i nostri prodotti. Questo graduale ‘svuotamento’ della crescita internazionale è dovuto anche al ruolo eccessivo che in questi anni è stato affidato alle politiche monetarie nel sostenere la ripresa tramite il ‘quantitative easing’. Questa strategia, pur necessaria a fronteggiare rischi eccezionali come la deflazione, non crea crescita duratura e a lungo andare produce distorsioni nelle valutazioni delle attività finanziarie e negli affidamenti bancari.
Tornando all’Italia, ai fattori internazionali vanno aggiunti quelli interni. È qui importante sottolineare che il problema della bassa crescita italiana è antico. Pesano le debolezze strutturali del nostro sistema produttivo, come la dimensione troppo piccola e poco managerializzata delle imprese che mal di adatta all’attuale competizione globale. C’è poi l’eredità delle politiche del passato, soprattutto quelle degli anni Settanta e Ottanta poco attente agli equilibri di bilancio, che hanno contribuito a generare il ‘macigno’ del debito pubblico (132% del Pil).
Ci sono infine gli errori dei decenni più recenti, che hanno appesantito la macchina pubblica, accresciuto la pressione fiscale e penalizzato l’attività d’impresa.
Ai problemi antichi si è però sommata l’incertezza generata dall’attuale compagine governativa, che ha partorito una strategia di politica economica molto sbilanciata. Anziché attuare un rilancio degli investimenti e delle infrastrutture si è puntato su misure di breve respiro che generano consenso elettorale ma che finiscono col gonfiare le già elevate spese correnti dello Stato e il debito pubblico. Il netto ridimensionamento della crescita, conseguenza anche di questa strategia, ha comportato l’ennesima revisione degli obiettivi di finanza pubblica e dimostrato l’inevitabilità di una manovra correttiva.
Cosa fare
Come ho detto molti dei problemi che affliggono l’economia italiana vengono da lontano. Il ritorno a una crescita duratura impone di agire sui fattori di lungo periodo, quelli che consentono aumenti della produttività dei fattori. È una responsabilità che investe le imprese come la Pubblica amministrazione, e che richiede politiche di contesto volte a migliorare il funzionamento dei mercati e le infrastrutture materiali e immateriali. Questi processi però sono lenti e complessi e quindi esplicano i loro effetti nel medio-lungo termine. Cosa fare dunque per riattivare la crescita nel più breve tempo possibile? Non bisogna peraltro dimenticare che un terzo del nostro debito pubblico è collocato presso investitori esteri ed è cruciale non perdere quel poco che rimane della fiducia dei mercati.
La soluzione a mio avviso richiede due elementi. Il primo consiste nell’attuazione di politiche di bilancio rigorose, che facciano leva sulla riduzione e l’efficientamento della spesa pubblica piuttosto che sull’aumento della pressione fiscale. Questo permetterebbe un abbassamento dello spread con benefici per lo Stato e per le imprese e genererebbe un effetto fiducia su consumi e investimenti.
L’austerità, infatti, non è necessariamente sinonimo di ‘decrescita’. Dipende da come la si attua, come hanno dimostrato con ampia evidenza empirica gli economisti Alesina, Favero e Giavazzi in un recentissimo saggio (Austerità: quando funziona e quando no, Rizzoli, 2019). E come stanno a dimostrare Spagna e Portogallo, paesi che hanno messo in atto pesanti programmi di aggiustamento grazie ai quali hanno risanato i conti pubblici e ripreso a crescere a ritmi anche del 2-3% l’anno.
Il secondo ingrediente è basato sulla tradizionale ricetta di rilanciare le costruzioni, in questi anni penalizzate da politiche scellerate che hanno causato la perdita di 600 mila posti di lavoro nel settore allargato.
In quest’ambito il primo aspetto è quello delle infrastrutture. Non ci sono solo opere strategiche come la Tav, che andrebbero completate al più presto. Ci rendiamo conto che a Matera, capitale della cultura 2019, non arriva ancora la ferrovia? C’è poi moltissimo da fare nella messa in sicurezza del territorio e nel recupero dei nostri centri urbani, come da tempo sottolinea senza successo l’Ance, l’associazione dei costruttori. Il nostro patrimonio abitativo è del resto obsoleto, in gran parte edificato prima delle norme antisismiche e gli edifici non sono efficienti dal punto di vista energetico. Serve dunque un grande piano di rigenerazione urbana, che preveda incentivi fiscali e altre agevolazioni per chi interviene sul rinnovo dell’esistente senza consumo di suolo, e che sia in grado anche di attirare investimenti dall’estero per la rinascita dei nostri quartieri. Si sa del resto che ‘quand le bâtiment va, tout va’!