All’anagrafe Floriana Filomena Ferrara, classe 1968. Di origini tarantine, diplomata in informatica, ha conseguito una laurea in Scienze dell’Informazione, subito dopo ha ricoperto il ruolo di Master Inventor per IBM e attualmente è anche Direttore della fondazione.
In quale ottica è intervenuta nell’edizione 2019 dell’evento “Global Inclusion – Generazioni senza frontiere”?
Sono stata chiamata perché si parla tanto di trasformazione digitale e di inclusione, ma quando l’argomento si sposta sulle donne informatiche ancora oggi, nel 2019, sembra stranire l’interlocutore, soprattutto quando esse ricoprono cariche alte in quell’ambito. Nel mio caso hanno scoperto che sono diplomata e laureata in informatica e inventrice di 17 brevetti nel campo del digitale e allora si è accesa la passione per la mia storia: la ragazzina che viene da Taranto e prosegue gli studi in un campo in cui non ci si aspettava di vedere donne.
Io sono del ’68, ho deciso negli anni ’80 di iscrivermi nell’unica scuola della mia città a indirizzo informatico, eravamo solo otto ragazze, per fortuna tutte nella stessa classe. Per essere accettata come donna competente nel campo informatico ho dovuto dimenticare di essere una “femminuccia” e ho iniziato a vestirmi da maschiaccio e a giocare a calcio.
Dal momento in cui ho iniziato a nascondere le mie sembianze femminili, hanno cominciato ad apprezzare le mie qualità in ambito informatico. Era diventato talmente naturale per me che avevo dimenticato di averlo fatto per essere accettata nel mio campo di competenza. Poi dopo il diploma e la laurea, ho acquisito maggiore sicurezza e consapevolezza e ho deciso che era giusto essere inclusa e apprezzata in quanto donna. Da quel momento in poi ho iniziato a presentarmi agli incontri e agli eventi in tacchi a spillo per combattere quella strana regola secondo la quale le competenze informatiche sono inversamente proporzionali all’altezza dei tacchi e quindi alla femminilità.
Dopo la laurea ho scelto IBM tra le tante aziende che ai tempi cercavano informatici perché chiedeva espressamente, attraverso interviste a tutti i suoi dipendenti come migliorare la qualità della vita sul posto di lavoro. Ecco, io credo fermamente che più un dipendente si sente incluso nella propria azienda, più riesce a mettere in campo il proprio talento. Questo mi ha fatto pensare che in IBM avrei potuto essere donna e informatica senza nessuna limitazione. Erano gli anni ’90 e la mia passione per quest’azienda dura da 25 anni.
Sfidare i pregiudizi sul luogo di lavoro per trasformarli in una chiave di successo, quindi. Da professionista quando ha capito che l’essere donna non era visto di buon occhio in campo informatico?
IBM è un’azienda assolutamente meritocratica, se sei bravo ti viene riconosciuto a prescindere dal tuo orientamento sessuale e politico, fede religiosa ecc. Al di fuori del contesto interno dell’azienda invece, prima di diventare direttrice, mi occupavo di creare progetti innovativi per i clienti, basati sull’intelligenza artificiale.
Durante la presentazione di un mio progetto, ricordo che fecero accomodare i miei colleghi e lo staff, mentre io fui gentilmente invitata a sedermi in un angolino e non al tavolo principale. A un certo punto, quando lampeggiò sul video la scritta F. Ferrara, qualcuno chiese “Ma questo Ferrara quando arriva?”. Al che mi palesai dicendo: “Sono io!”. La risposta dell’amministratore delegato dell’azienda cliente fu: “Ma lei è una donna”. Quel momento di imbarazzo fu superato quando risposi “Sì, ne sono consapevole. Posso ugualmente presentare il progetto?”.
Purtroppo stupisce ancora, non tanto vedere una donna che lavori nel mondo del digitale, quanto una donna che ricopra un ruolo di responsabilità.
La sua storia è particolare anche per un curioso aneddoto che risale alla seconda elementare, quando un insegnante intuì la sua dislessia.
Ero una bambina molto timida e insicura. Il maestro disse duramente a mia madre che avevo un quoziente intellettivo basso e che probabilmente non avrei finito neanche la quinta elementare e mi bocciò. L’anno successivo mi trovai a ripetere la seconda elementare. Per fortuna trovai un maestro che intuì la mia dislessia, all’epoca ancora materia oscura, e mi diede gli strumenti per apprendere e andare avanti nel mio percorso. Fu sempre lui a individuare in me uno spiccato talento per la matematica e poi per l’informatica. Gli devo molto visto che è grazie a lui che ho recuperato autostima e che mi sono sentita inclusa nell’ambiente scolastico.
Secondo lei perché i dati dell’Istat continuano tuttora a registrare una percentuale così bassa di donne che si iscrivono alle facoltà scientifiche? È un problema culturale e sociale?
Ci siamo fatti spesso questa domanda e per trovare una risposta abbiamo ideato il progetto N.E.R.D (Non è roba per donne). Ci chiediamo perché ci siano poche donne informatiche nonostante esistano già molti progetti che sembrano andare in questa direzione, ma si tratta per lo più di workshop di una giornata.
Le donne non le convinci regalando loro un cappellino o una maglietta, ma facendole misurare direttamente con gli strumenti, consentendo loro di mettere le “mani in pasta”. Da una nostra ricerca è emerso che spesso sono le donne stesse a non credersi all’altezza del campo di studi. In realtà è solo timore, ai miei studenti dico sempre che non c’è nulla nel nostro Dna che stabilisca che l’informatica non sia una possibilità per le donne.
Il progetto N.E.R.D., nato nel 2014 in collaborazione con la professoressa Velardi dell’Università “La Sapienza” di Roma, e ad oggi presente in altre 13 università italiane, grazie soprattutto all’energia di 100 colleghe e amiche di IBM, offre alle studentesse due mesi di tempo per misurarsi con la tecnologia: ad esempio insegniamo loro come istruire un’intelligenza artificiale, fornendo lo strumento e affidando loro la creazione di un progetto individuale. Spesso, ideando delle chatbot, ottengono risultati sorprendenti, scoprendo come si possa essere creative utilizzando la tecnologia.
Ci sono altri progetti che IBM porta avanti per divulgare la passione per le scienze informatiche ai giovani?
Lunedì scorso abbiamo presentato il progetto P-Tech, in collaborazione tra gli altri anche con Confindustria Taranto. Abbiamo selezionato 120 ragazzi provenienti da quattro scuole della città che verranno seguiti a partire dal terzo anno superiore fino alla laurea in ingegneria informatica. Durante questo periodo, docenti del Politecnico di Bari faranno un percorso ad hoc per i ragazzi, i quali avranno anche un tutor di una società che li seguirà.
La speranza è che tutti i partecipanti portino a termine il percorso intrapreso, così da avere tra sei anni i primi laureati in un ambito tanto richiesto e in una città dove le possibilità di lavoro spesso non sono molte. È noto che nella mia città d’origine spesso la lotta tra il diritto alla vita o il diritto al lavoro spegne ogni ambizione nei giovani. Questo progetto vuole offrire loro una possibilità di futuro.