Il mappamondo industriale è sempre più organizzato per grandi blocchi regionali, con i tre sistemi continentali che fanno perno sui grandi player delle rispettive aree (Usa, Germania e Cina-Giappone) attorno ai quali si organizzano, con geometrie variabili, le filiere di settore nelle quali le industrie nazionali svolgono con intensità diversa il ruolo di fornitore di beni intermedi o produttore di beni finali.
La gerarchia dei sistemi regionali è in costante evoluzione: nel breve termine, gli Stati Uniti potrebbero presto riguadagnare il posto di prima manifattura globale a scapito della Cina, con l’industria tedesca in terza posizione.
Nel più lungo periodo l’evoluzione demografica detta alcune linee di tendenza della produzione globale. Nel 2100, secondo le Nazioni Unite, degli 11 miliardi di esseri umani solo il 10% abiteranno in Europa o Stati Uniti. L’Asia scenderà al 43% della popolazione mondiale dal 60 di oggi, mentre l’Africa passerà al 40% seppur con un reddito pro-capite ancora molto distante. In questo quadro, l’Asia consoliderà il ruolo di principale bacino di produzione, investimento e consumi, mentre l’Africa potrebbe diventare un attore rilevante della manifattura standardizzata.
Se concentriamo lo sguardo sulle dinamiche industriali europee, appare evidente l’intreccio di competizione e cooperazione che da sempre contraddistingue le vicende continentali. Da un lato, dopo anni di trattative, con il voto recente del Parlamento europeo il Vecchio continente può ora contare su una normativa anti-dumping che dovrebbe finalmente mettere un serio freno a pratiche di vendita sleali soprattutto nei settori della manifattura tradizionale. Nuove regole che aprono la strada a misure difensive destinate ad avere le ricadute più evidenti nei confronti della Cina. Inoltre, sia pure tra difficoltà e resistenze, sembra consolidarsi un modello di industria europeo in settori come la difesa e l’aereospaziale.
Dall’altro lato assistiamo a continue controversie nazionalistiche su singoli progetti di acquisizioni o fusioni e a vicende surreali come quelle dell’Ema.
Sotto la superficie delle politiche statali o comunitarie, tuttavia, si dipana la trama del tessuto industriale europeo dettato dalle dinamiche delle imprese: nonostante i venti dirigisti e protezionisti che spirano oggi, le specializzazioni produttive dei territori e le tradizioni industriali appaiono ancora fattori competitivi nelle scelte di localizzazione, ma in misura e con modalità diverse a seconda di come le catene globali del valore interagiscono con le filiere nazionali o con segmenti di queste.
Quali regolarità possiamo individuare? E che ruolo possono avere i diversi attori sociali? Sappiamo, ad esempio, che mentre tecnologia e globalizzazione spesso distruggono lavoro, se ne può creare di nuovo ma tendenzialmente in settori, aree geografiche e con salari non sovrapponibili a quelli del passato anche prossimo.
Questo apre uno spazio ampio, ancorché accidentato, da coprire con azioni di policy: formazione, coesione territoriale, politica industriale, politica fiscale e dei redditi. Gli attori degli interventi non possono che essere, oltre alla politica e alla Pubblica amministrazione, le imprese con i lavoratori.
Un’altra regolarità si riscontra nella relazione tra competenze e partecipazione nelle catene globali del valore. L’aumento dell’occupazione e quello della produttività sono obiettivi non necessariamente congiunti nel breve termine, ma connessi invece nel medio e lungo periodo. Entrambi hanno a che fare con la partecipazione delle nostre aziende ai network internazionali del valore. Posizionarsi nelle fasi dove prevale l’apporto del capitale intangibile, siano esse quelle a monte della progettazione, della ricerca, della elaborazione dell’informazione, oppure in quelle a valle del marketing, della gestione della proprietà intellettuale e dell’organizzazione delle reti di distribuzione, si accompagna a maggior crescita della produttività e dei salari.
Il concetto stesso di Industria 4.0 è quello di rendere pervasivo l’apporto non solo delle nuove tecnologie, ma anche del capitale intangibile nelle fasi intermedie del processo manifatturiero, quelle in passato più caratterizzate da una maggior standardizzazione e dal ristagno della produttività.
Il ritardo delle imprese italiane, che in parte è stato colmato da quelle più virtuose a partire dal 2011, è particolarmente marcato nel Mezzogiorno: oltre un terzo delle aziende del Sud non partecipano a nessun tipo di scambi internazionali contro il 18% circa del resto del Paese. Se si considerano solo le catene del valore su basi almeno europee, oltre la metà delle imprese localizzate nel Mezzogiorno partecipano solo nel ruolo di fornitori di beni intermedi relativamente poco specializzati e quindi sostituibili da parte del produttore finale. La percentuale analoga di imprese che possiamo definire “ad internazionalizzazione elementare” è assai più bassa nel Centro-Nord Italia (39%) e nel resto d’Europa. Intensificare le azioni di politica economica e gli investimenti industriali nel Mezzogiorno è più che mai necessario.