L’emergenza ha mandato in cantina la nota espressione “Business as usual”, riferita all’esecuzione sistematica di alcune attività in un’azienda o un’organizzazione: un concetto del passato. Non c’è un “usual” in questi tempi incerti. Per tutte le realtà che competono sul mercato la sfida del marketing è un percorso a ostacoli: contano sempre più l’intuito e il coraggio di scegliere. Vincono le aziende che riescono a proteggere i propri ricavi e clienti-core con poche azioni “ad alto ritorno”. Quelle che sanno gestire l’instabilità e scommettere sull’innovazione: un’abilità da coltivare, in vista degli ulteriori cambiamenti che inevitabilmente arriveranno.
Come svilupparla? Con una visione olistica e asciutta delle attività quotidiane e una valutazione oculata delle priorità. Un approccio dal forte impatto sul marketing.
La value based strategy
Nelle grandi realtà le strategie sono sempre più articolate e la pandemia non ha fatto che ampliare il ventaglio: il rischio è un’operatività sempre più parcellizzata, tra urgenze quotidiane e decine di piani da seguire in parallelo. L’imperativo per evitarlo è restringere il campo e la chiave per riuscirci ha un nome: Value Based Strategy. Un approccio basato su un principio elementare: per ottenere un successo finanziario duraturo, bisogna creare un valore elevato per i clienti, i dipendenti e i fornitori. In concreto, mandare in porta almeno una di queste attività:
- Creare valore per i clienti. Obiettivo: accrescerne la disponibilità a pagare. La cosiddetta “Dap”, ovvero la somma massima che un cliente X sarebbe disposto a spendere per un determinato bene. Possiamo alzarne il livello con un attento miglioramento dei prodotti già sul mercato, predisponendo le persone ad un maggiore investimento economico. Un esempio tra tutti è quello di Apple: il colosso di Cupertino riesce a imporre un premium price sui suoi prodotti perché accresce di continuo la Dap dei clienti, con dispositivi belli e sempre più performanti. Il segreto è entusiasmare il cliente: accenderlo emotivamente. Un aspetto che di solito i marketing manager “fatturato-centrici” dimenticano, focalizzando l’attenzione sui numeri anziché sul valore.
- Creare valore per i dipendenti. Si può rendere stimolante il loro lavoro e alzare l’asticella dell’impegno di tutti: un dipendente soddisfatto fa meglio e porta risultato. Agire su questa leva senza toccare la retribuzione è possibile: se offriamo alle nostre persone un’attività interessante e piena, acquisiremo e manterremo talenti. Il livello retributivo minimo da assicurare – lo stipendio in grado di sostenere la “disponibilità a vendere” dei dipendenti – è in gergo la “Dav”. Come avviene per la Dap, ha alla base più fattori: alcuni a basso impatto per l’azienda, ma dall’alto potenziale sui ritorni. Esempio: le scelte relative allo smart working o alla flessibilità negli orari di ingresso/uscita: misure che spesso non comportano uno sforzo significativo per l’impresa, ma possono fare la differenza per chi ne beneficia.
- Creare valore per i fornitori. Per ogni brand il passaparola è volano di marketing potente. Un fornitore che parla bene di noi ci aiuterà a sviluppare il nostro business e si impegnerà per servire al meglio la “casa”. Anche il fornitore ha la sua Dav: il prezzo minimo cui è disposto a vendere il prodotto/servizio. Possiamo incidere aiutandolo a promuovere il suo marchio, come ha fatto Nike in Asia, creando un polo di formazione per insegnare ai fornitori asiatici il Lean Manufacturing. Un’operazione strategica: il fornitore ha fatto proprie a costo zero competenze su nuove tecniche di produzione, molto richieste dal mercato, e le ha potute applicare su ampio numero di clienti, tra cui chiaramente Nike. Profitti più elevati = fornitore soddisfatto. E brand ambassador assicurato.
La forza nella gestione dei prezzi
La “forza nella gestione dei prezzi” è cardine delle strategie di marketing basate sul valore: chi riesce a incidere sul valore percepito, darà al cliente una visione diversa del costo. Lo aveva chiaro Warren Buffet, imprenditore statunitense considerato il più grande value investor di sempre. “La cosa più importante nel valutare un business è la forza nella gestione dei prezzi – ha dichiarato in uno speech molto noto tra i marketer – se hai il potere di aumentare i prezzi senza perdere clienti, hai un business davvero buono. Se invece devi pregare prima di aumentare i prezzi del 10%, allora hai un business terribile!”.
Va detto che il concetto di profitto è profondamente cambiato nella percezione delle imprese. Per anni è stato ritenuto l’obiettivo principale di un’azienda, come sosteneva la teoria neoclassica. Negli anni Sessanta è stato sostituito dal tentativo delle imprese di “aumentare le proprie dimensioni”. Dagli anni Ottanta si è imposta la teoria della creazione di valore, dove l’azienda “sopravvive solo creando di continuo valore per gli stakeholder”. No agli estremismi da deriva: mai trascurare il profitto. Sì a un bilanciamento tra le due dimensioni.
L’appeal degli extra
Le aziende focalizzate sul valore riescono ad accrescere Dav e Dap e a ridurre il turnover sulle risorse umane. Le migliori sanno anche inserire nell’offerta prodotti e servizi “accessori”: i cosiddetti “complementi”, che rafforzano la proposta principale. Un esempio: la palestra che offre un servizio di intrattenimento bambini mentre mamme fanno lezione di zumba. Funziona quando si pensa in modo “largo” alla user experience: l’esperienza d’acquisto dei clienti.
Flessibili e competitivi
La visione “per silos” è al capolinea per chi vede nei cambiamenti non minacce al modello di business in uso ma possibili opportunità. E per le aziende che sanno spostare rapidamente bacini di profitto, all’occorrenza, offrendo soluzioni che vanno al di là dei prodotti core dell’azienda.
Un esempio arriva ancora da Apple: la Dap verso i suoi prodotti è diminuita nel tempo per via di abili competitor che si sono fatti strada sul mercato. L’azienda ha temporaneamente spostato il bacino di profitto dall’hardware ai servizi (APP), dove non teme concorrenti. Un approccio cui ispirarsi quando il mercato “di gioco” diventa affollato.
La mappa del valore
Dalla teoria alla pratica, il passo non è breve: Dap e Dav possono apparire concetti astratti e quando i responsabili marketing assumono atteggiamento difensivo si perdono occasioni ghiotte. Ma Harvard Business School ha messo in campo uno strumento a supporto: la “Mappa del valore”.
Si parte da un gruppo di clienti: il segmento più profittevole per l’azienda. Su di loro si cristallizza la UX, isolando gli elementi chiave che per questi clienti rappresentano “la priorità”. Sono i Value Driver, basilari per la Dap del target. Si classificano in ordine crescente di importanza, si stabilisce come la nostra azienda soddisfa quei bisogni, si traccia ciò che fanno in tal senso i nostri concorrenti principali. Poi a ciascun Driver agganciamo KPI (Key Performance Indicator, ndr) e una volta creata la mappa identifichiamo i percorsi a maggiore potenziale, con strategie a supporto. Il percorso sarà proficuo se si resisterà alla tentazione di correre dietro ai concorrenti: differenziarsi permette di non riportare la scelta sul mero piano del prezzo (tra due brand simili il cliente sceglierà sempre il più economico).
D’obbligo insistere sulla generazione di trade off, perché nessuno può fare bene tutto. To do: “restringere il campo”.
Risultati di squadra
Creiamo valore solo in squadra. Quando gli obiettivi sono sposati dall’Ad come dall’ultimo stagista del palazzo. Quando tutti sono stimolati a trovare soluzioni, a guardare oltre i compiti prestabiliti, ad accrescere la soddisfazione del cliente in ogni direzione possibile.
Identità, rappresentanza, servizi: l’esperienza di Confindustria
Sono i tre fattori che possono determinare la scelta di associarsi da parte delle aziende target. Ma è essenziale cogliere anche i bisogni specifici dell’interlocutore, come spiega il vice presidente Alberto Marenghi
Trasferire alle imprese in modo pieno ed efficace il valore di aderire ad un’organizzazione come Confindustria. Una sfida per la squadra del marketing, che nel poco tempo a disposizione nelle prime interlocuzioni con le aziende target deve focalizzare in modo efficace l’apporto in termini di rappresentanza e servizi, valorizzando l’ampia componente identitaria e prospettando anche l’impegno economico legato all’eventuale adesione. Un’operazione dove incidono le capacità di comunicazione e persuasione del team.
“Per la squadra del marketing sono strategiche le competenze di comunicazione e negoziazione, oltre ad una visione ampia di tutto ciò che come sistema possiamo offrire e alla capacità di cogliere i bisogni specifici dell’interlocutore – spiega Alberto Marenghi, vice presidente all’Organizzazione, Sviluppo e Marketing Confindustria –. Per questo continueremo a lavorare sulla formazione, con percorsi centrati sul value selling, in continuità con quanto messo in campo in questi anni”.
Un percorso inserito nel filone Altascuola MarkeTHINK! costruito da SFC Sistema Formativi Confindustria per aumentare le capacità della comunità professionale del marketing. “Un’iniziativa lanciata quattro anni fa – sottolinea il vice presidente – che ha visto coinvolti anche direttori e ruoli tecnici, in linea con l’approccio di ‘marketing diffuso’ che da tempo promuoviamo al nostro interno”.
(Servizio pubblicato sul numero di ottobre dell’Imprenditore)