Kodak: la regina dell’immagine travolta da digitalizzazione e smartphone
“Voi premete il pulsante, noi facciamo il resto.” Lo slogan utilizzato dal fondatore di Kodak George Eastman nel 1888 per lanciare la prima fotocamera per non professionisti ben sintetizza quella che, per oltre un secolo, è stata la filosofia dell’azienda: rendere la fotografia più semplice, utile e piacevole. Lo stesso nome dell’azienda – una parola priva di significato – è stato scelto perché semplice e facile da pronunciare.
In poco tempo la Eastman Kodak Company diventa leader nella produzione di pellicola cinematografica e apparecchiature per immagini e stampa, introducendo contemporaneamente continue innovazioni.
Il modello di business è semplice ed efficace: la vendita di telecamere e fotocamere genera la domanda per lo sviluppo di film e fotografie. Quest’ultima è l’attività che produce gran parte dei profitti perché Kodak detiene circa l’80 per cento del mercato di sostanze chimiche e carta utilizzate per sviluppo e stampa. La strategia è analoga a quella di Gillette e Hewlett-Packard: offrire rasoi e stampanti a prezzi contenuti per poi vendere ricambi di lamette da barba e cartucce d’inchiostro con margini elevati.
Prima dell’avvento del digitale, Kodak sembra inattaccabile. Nel 1976 arriva a quote di mercato negli Stati Uniti del 90 per cento nelle pellicole e dell’85 per cento nelle macchine fotografiche. Vent’anni dopo, l’azienda di Rochester detiene oltre due terzi del mercato mondiale e raggiunge un picco di fatturato di quasi 16 miliardi di dollari (la punta massima nel numero dei dipendenti impiegati invece è del 1988, con 145.000 unità), generando 2 miliardi e mezzo di profitti. Nel 2000, poco prima della transizione digitale, i film rappresentano ancora il 72 per cento del fatturato e il 66 per cento del reddito operativo: Kodak è il quinto marchio più conosciuto al mondo.
Tuttavia, alcuni grandi cambiamenti sono all’orizzonte. La digitalizzazione della fotografia è un vero e proprio tsunami che cancella rapidamente e quasi completamente il mercato della pellicola, travolgendo il modello di business di Kodak. La domanda mondiale di film, al massimo storico nel 2001, nel 2010 è pari a meno di un decimo. Anche i margini si riducono drasticamente e Kodak è costretta a competere nel mercato delle apparecchiature digitali, molto meno redditizio per la presenza di concorrenti aggressivi come Canon, Nikon e Fujifilm.
Nonostante la forza del brand e l’innovazione tecnologica le consentano di conquistare un’ottima quota del mercato delle fotocamere digitali – circa 25 per cento di quello americano nel 2005 – il problema di questo segmento è la scarsa redditività. Secondo un case study di Harvard Business School, Kodak arriva a perdere fino a 60 dollari per ogni fotocamera digitale venduta.
Come se non bastasse, a poca distanza di tempo arriva un secondo tsunami, ancor più violento del primo. Le grandi aziende di elettronica, Apple e Samsung in testa, iniziano a produrre telefoni cellulari in grado di scattare fotografie di ottima qualità. I profitti di Kodak crollano: da 2,5 miliardi di dollari nel 1996 a 1,4 nel 2000, fino a 800 milioni nel 2002. Dal 2006 il declino si fa ancora più marcato. L’elevato indebitamento – quasi 7 miliardi di dollari a fronte di un patrimonio societario di poco più di 5 – e l’esaurimento della liquidità, costringono l’azienda nel gennaio 2012 al Chapter 11.
Nei mesi successivi Kodak cessa la produzione di apparecchi fotografici per concentrarsi sulla fabbricazione di stampanti e dismette la produzione dell’Ektachrome e quindi di tutte le pellicole invertibili (le diapositive) a colori mantenendo in catalogo solo quelle negative per uso professionale e nel cinema.
La pesante ristrutturazione consente di chiudere la procedura di fallimento nel settembre 2013 ma lascia un’attività molto ridimensionata. Oggi Kodak offre principalmente sistemi di stampa industriali e professionali mentre le produzioni storiche – supporti di memoria, pile, macchine fotografiche – sono concesse in licenza di marchio ad aziende esterne. Il giro d’affari è attorno al miliardo, nemmeno un decimo di quello dei tempi d’oro e una frazione di quello dei principali concorrenti.
Nonostante avesse una posizione leader nel mercato, Kodak non ha visto arrivare lo tsunami del digitale. Una volta colpita, l’azienda americana ha in un primo momento cercato di resistere al cambiamento, sottovalutandone la portata, e solo in seguito ha cercato di adattarvisi. Ma il tentativo non ha avuto successo, sia perché tardivo sia perché ostacolato da una cultura aziendale rigida e autoreferenziale.
Fujifilm: la diversificazione che trasforma la minaccia in opportunità
La digitalizzazione della fotografia ha rappresentato un cambiamento radicale per i colossi della pellicola, rendendo in poco tempo obsoleti modelli di business a lungo vincenti.
Fuji e Kodak sono state aziende molto simili fino al momento in cui, a fronte del cambiamento dirompente causato dalla digitalizzazione, hanno reagito in modo differente. Il gruppo giapponese si è adattato al cambiamento e l’ha cavalcato, quello americano l’ha subìto. Oggi Fuji è un gruppo diversificato che capitalizza oltre 20 miliardi di dollari mentre il valore di Borsa di Kodak è di meno di 200 milioni.
Fino alla fine degli anni Novanta, il settore della pellicola è sicuro e redditizio. Fuji e Kodak dominano i rispettivi mercati domestici e, a livello mondiale, operano sostanzialmente in regime di oligopolio perché concorrenti quali Agfa-Gevaert e Konica hanno dimensioni e tassi di penetrazione molto inferiori. Ma lo scenario competitivo cambia radicalmente dal momento in cui sia la fotocamera digitale – inventata proprio da Kodak nel 1975 – sia lo smartphone consentono di scattare fotografie di ottima qualità.
Davanti a questa doppia sfida, paradossalmente l’americana Kodak si comporta secondo lo stereotipo aziendale giapponese, tendenzialmente ostile ai mutamenti, mentre la giapponese Fujifilm mostra la flessibilità tipica delle aziende americane, in genere abili proprio nel reinventarsi. Kodak affronta il cambiamento con una mentalità conservatrice. La forte posizione di leadership e un certo senso di autocompiacimento dapprima impediscono al management di anticipare il cambiamento e successivamente alimentano la convinzione di poter sopravvivere alla bufera. In un’illuminante intervista rilasciata all’Economist, il Ceo di Fujifilm Shigetaka Komori sottolinea che il fatto che Kodak sia “stata la prima azienda per così tanto tempo” ne “ha rallentato l’adattamento”. In altre parole, l’inerzia è stata la prima ragione della sua caduta.
Fuji, al contrario, pur sorpresa dal cambiamento sa reagire immediatamente, con umiltà e determinazione. Innanzitutto conduce una pesante ristrutturazione dei comparti dedicati alla cinematografia, riducendo le linee di produzione, chiudendo le strutture ridondanti, tagliando costi e personale, e potenzia le attività di ricerca e sviluppo. A questa mossa difensiva i giapponesi affiancano un’importante azione di diversificazione delle attività, basata sull’innovazione e sui punti di forza del gruppo.
Fuji trasforma la minaccia derivante dal digitale in opportunità: dai cambiamenti trae stimoli per entrare in nuovi settori – mediante crescita organica e acquisizioni – nei quali poter sfruttare le proprie competenze. Dopo aver fatto un accurato inventario delle proprie tecnologie e averle confrontate con la domanda del mercato internazionale, Fuji cerca di adattarle a settori emergenti come l’elettronica commerciale, la farmaceutica, la cosmetica e di sfruttarle per creare materiali esclusivi, altamente funzionali e con un elevato valore aggiunto. Per esempio, partendo dalle tecnologie impiegate nel settore cinematografico realizza pellicole ad alto rendimento – Fujitac, WV, CV – che garantiscono le alte prestazioni essenziali per realizzare pannelli a cristalli liquidi LCD per televisori, computer e smartphone.
Oggi Fujitac possiede l’80 per cento del mercato delle pellicole protettive per schermi polarizzatori LCD e Fujifilm ha il 100 per cento di quelle WV (Wide-View), parte integrante di molti schermi a cristalli liquidi. Grazie al profondo know-how relativo ai processi di ossidazione, collegati sia all’invecchiamento della pelle umana sia allo sbiadirsi delle fotografie nel tempo, Fuji entra nel settore cosmetico e nel 2007 addirittura lancia una linea di trucco chiamata Astalift.
Attraverso una severa ristrutturazione e una diversificazione “intelligente”, Fuji esce quindi con successo dalla tempesta digitale. Il gruppo giapponese, fondato nel 1934, comprende la portata dei cambiamenti in atto e li gestisce al meglio: talvolta li anticipa e altre addirittura li cavalca per trarne opportunità. Se nel 2000 il 60 per cento delle vendite e i due terzi degli utili del gruppo provenivano dall’ecosistema cinematografico, oggi le pellicole rappresentano meno dell’1 per cento dell’attività e i prodotti per la fotografia nel complesso sono scesi al 16 per cento.
Ciò è stato possibile perché il management ha compreso immediatamente il declino irreversibile della fotografia tradizionale e ha avuto il coraggio di entrare in nuovi mercati. Kodak, invece, si è ostinata nella difesa del settore della fotografia e non ha saputo diversificare. Con il senno di poi, il suo ex vicepresidente Willy Shih ha dichiarato che il gruppo americano avrebbe dovuto “competere sulle proprie capacità piuttosto che sui mercati in cui era”. Esattamente ciò che ha fatto Fuji.
(Estratto dal libro “L’onda perfetta”, pubblicato da Luiss University Press)