
La sostenibilità rappresenta un tema con cui le Pmi debbono sempre più spesso confrontarsi per rispondere alle mutate esigenze di mercato che provengono da più fronti, a partire dai consumatori finali, dalle banche o in quanto “anelli” di una più ampia catena di fornitura in cui si richiedono particolari requisiti di sostenibilità.
Far conoscere all’esterno il proprio impegno in campo ambientale e sociale appare pertanto sempre di più una opportunità – non solo per le grandi imprese – ma anche per le Pmi. Ciò può efficacemente avvenire mediante la realizzazione di un report di sostenibilità. La predisposizione di questo documento comporta difatti un lavoro a monte di mappatura e raccolta dei dati non puramente economici, che può rappresentare uno stimolo a efficientare i processi interni e far emergere il valore immateriale della azienda.
La comunicazione sulla sostenibilità può poi contribuire a migliorare l’immagine e la competitività dell’azienda sul mercato, agevolare le relazioni con le pubbliche amministrazioni, che negli ultimi anni non di rado orientano le loro politiche di acquisto secondo logiche di sostenibilità, e non da ultimo favorire le relazioni con banche e investitori, che sempre di più necessitano di dati non finanziari per le loro scelte.
Un discorso specifico riguarda quelle società, fra cui le Pmi, che scelgono di adottare la forma della cosiddetta società benefit. Si tratta di società ordinarie che si ripropongono di coniugare lo scopo di lucro con il perseguimento di obiettivi di beneficio comune, obiettivi nel cui ambito vi rientrano tipicamente iniziative di sostenibilità di carattere ambientale e sociale.
Per queste società “benefit” la rendicontazione di quanto realizzato per il perseguimento degli obiettivi di beneficio comune risponde ad un obbligo di legge, al quale l’organo amministrativo deve provvedere previa misurazione e valutazione dell’impatto generato.
Al di fuori di questo ambito, il punto di riferimento è rappresentato dalla Direttiva 2014/95/UE del 22 ottobre 2014, cui si è data attuazione in Italia con il D.lgs. 30 dicembre 2016, n. 254. La stessa prevede un obbligo di fornire una informativa di carattere non finanziario per un ristretto numero di società e gruppi di grandi dimensioni di interesse pubblico, quali banche e assicurazioni. Le altre società, fra cui le Pmi, possono fornire una informativa sulla sostenibilità su base volontaria, facendo eventualmente ricorso a standard di rendicontazione globalmente riconosciuti, quali i GRI Standards.
A livello europeo si è avvertita l’inadeguatezza di questo quadro a garantire informazioni sulla sostenibilità affidabili, comparabili e individuate secondo modalità certe. Con il dichiarato obiettivo di porre rimedio a questa situazione, il 21 aprile 2021 la Commissione europea ha adottato una proposta di Direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio, cosiddetta “Corporate Sustainability Reporting Directive”. Si tratta di una proposta ancora in fase di approvazione. È difatti di pochi giorni fa, e precisamente del 21 giugno, la notizia che il Consiglio e il Parlamento europeo hanno raggiunto un accordo politico provvisorio sulla proposta di direttiva di cui trattasi, accordo che dovrà essere formalmente recepito da queste due istituzioni.
Questa direttiva, una volta in vigore, estenderà l’obbligo di fornire il report sulla sostenibilità, tra l’altro, a tutte le grandi imprese e società quotate su mercati Ue che non siano qualificate come “microimprese” in base a determinati parametri economici previsti dalla norma.
Anche le Pmi quotate, che non siano appunto “microimprese”, saranno dunque tenute all’obbligo di rendicontazione secondo la nuova disciplina. Le Pmi non quotate potranno invece applicare le previsioni della direttiva su base volontaria.
Fra le principali novità, questa direttiva disciplinerà con maggiore dettaglio le informazioni sulla sostenibilità che saranno peraltro da collocarsi nella relazione sulla gestione, prevederà standard di rendicontazione europei così da garantirne una maggiore omogeneità e comparabilità e introdurrà un sistema di certificazione dell’informativa sulla sostenibilità.
Naturalmente, l’attività di rendicontazione comporta costi e l’impiego di risorse che non sempre le Pmi sono in grado di affrontare. Per questo motivo la direttiva prevede che le Pmi quotate potranno fornire una informativa sulla sostenibilità semplificata e che gli standard di rendicontazione che saranno elaborati per tali Pmi quotate – e utilizzabili su base volontaria per le altre Pmi – saranno proporzionati alle loro caratteristiche e dimensioni ridotte.
L’applicazione di questa direttiva è prevista in fasi. Per le Pmi quotate essa troverà in particolare applicazione dal primo gennaio 2026, ma sarà possibile una deroga che consentirà a queste imprese di essere esentate dagli obblighi di questa nuova normativa fino al 2028.
E la pubblicità? Sì, ma con attenzione
Sovente il tema ambientale viene utilizzato dall’impresa anche quale efficace strumento pubblicitario di propri prodotti o servizi. Si tratta di un altro aspetto della comunicazione della sostenibilità a fini commerciali, che pone il ben noto problema della pratica illecita conosciuta come greenwashing, consistente nella enfatizzazione del carattere eco-sostenibile di un prodotto che ne risulta sprovvisto o la cui sussistenza non possa essere provata.
Il quadro normativo di riferimento è particolarmente articolato, in quanto questo fenomeno può configurare una pratica commerciale scorretta nei rapporti tra impresa e consumatore disciplinata dal Codice del Consumo, può rientrare nell’ambito del D.lgs. 2 agosto 2007 n.145 che sanziona la pubblicità ingannevole nei rapporti “business to business”, oltreché nell’ambito di talune norme Ue dettate per specifici settori.
La comunicazione pubblicitaria basata sulla enucleazione di benefici ambientali è poi presa in considerazione dal Codice di Autodisciplina della Comunicazione Commerciale, il quale, all’art. 12, delinea i caratteri che essa deve avere perché sia considerata lecita.
Ne deriva un “intreccio” di competenze tra varie autorità (ad esempio l’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato e l’Istituto di Autodisciplina Pubblicitaria), al quale si aggiunge l’autorità giudiziaria ordinaria che peraltro, con una recente decisione del Tribunale di Gorizia del 25 novembre 2021, si è occupata per la prima volta del tema.
Nel complesso emerge l’orientamento a delineare i caratteri della comunicazione commerciale basata su vantaggi ambientali in modo estremamente rigoroso. Così senza pretesa di esaustività, bisognerà fare attenzione a che la rappresentazione di benefici ambientali si basi su prove scientificamente verificabili, sia specifica, veritiera e accurata, evitando riferimenti generici o ingannevoli in merito all’impatto ambientale. Nella rappresentazione nel messaggio pubblicitario di aspetti ambientali è poi importante evitare una eccessiva enfatizzazione o una sovrastima dei medesimi o la pubblicizzazione della sostenibilità di un prodotto o di una intera attività quando gli impatti si riferiscono solo a una parte del prodotto o della attività stessa.
Nota sull’autore

DANIELE GIOMBINI
Daniele Giombini si è laureato in giurisprudenza all’Università di Perugia nel 1999 ed è iscritto all’Ordine degli Avvocati di Milano dal 2005. Partner dello studio legale Mondini Bonora Ginevra, presta consulenza, giudiziale e stragiudiziale, in materia commerciale, societaria e nel diritto bancario e finanziario, nel cui ambito si interessa anche di sostenibilità e società benefit. Ha conseguito master di specializzazione in diritto societario, nella contrattualistica d’impresa e in contabilità e bilancio.