Bmw e Louis Vuitton potrebbero non essere il più scontato degli accoppiamenti. Ma a pensarci bene, la nota casa automobilistica e il designer a cinque stelle hanno in comune tratti significativi. Entrambi nel business del viaggio (chi non ricorda gli iconici borsoni?), entrambi nel mondo del lusso, entrambi marchi noti per la manifattura di alta qualità. Ma è la “vicinanza dei valori” il motivo per cui la campagna di co-branding avviata dalle due case ha avuto successo.
Nell’ambito della loro collaborazione, Bmw ha creato un’auto sportiva ad hoc (si chiama Bmw i8), mentre Vuitton ha lanciato sul mercato un esclusivo set di quattro valigie a misura perfetta per gli spazi posteriori del veicolo. Il design del kit Vuitton è lo specchio dell’immagine Bmw: maschile, elegante e di qualità. Anche i costi viaggiano sullo stesso target e sono per “chi può”: 20mila dollari per i borsoni, 135.700 il prezzo base dell’auto. Di cosa stiamo parlando? Di un’operazione di marketing in partnership. Basata su un principio che ha preso piede negli ultimi anni e che è sempre più utilizzato per avvicinare nuovi clienti o fidelizzare: il co-branding. Alleanza strategica tra due o più aziende che porta vantaggi a ciascuna impresa per il raggiungimento dei rispettivi obiettivi aziendali, in un determinato periodo di tempo e nell’ambito di un filone ad hoc. Le aziende coinvolte in queste operazioni non si limitano a “usare reciprocamente il logo”, ma inventano e gestiscono azioni di marketing mirate, in modalità win win.
Abbondano gli esempi dei brand – alcuni molto noti – che negli anni hanno sperimentato, con coraggio e creatività, il modello: Starbucks e Spotify, Apple e MasterCard, Airbnb e Flipboard, Uber e Spotify, Levi’s e Pinterest, Unicef e destinazione, Nike e Apple, solo per citarne alcuni. Famosa è la coppia Michael Jordan e Nike: la stella del basket continua a guadagnare 100 milioni di dollari all’anno dalla vendita dei prodotti Air Jordan. Se la Nike avesse scelto un giocatore qualsiasi, forse non avrebbe venduto nemmeno dieci paia: nessuno vuole vestire “mediocre”.
Il valore è percezione
Il brand, ormai è noto anche ai non addetti ai lavori, è un fatto di percezioni. Il valore è percezione. Concetti-base per fortunate e “storiche” collaborazioni come quella tra McDonald e Coca Cola, ma anche per celebri aziende che da tempo si “consigliano a vicenda”. Esempio concreto: la Indesit che consiglia Finish, “l’unico detersivo raccomandato dai produttori di lavastoviglie”. Pensiamo anche alla pubblicità realizzata da Uliveto e Rocchetta “le acque della salute”. Altro esempio di co-branding? Quello tra Diesel e Adidas per la creazione di un nuovo jeans. O ancora quello di Giorgio Armani, che disegna una serie di prodotti elettronici per uso personale per il gruppo Samsung. Esperienze che richiamano una domanda di fondo: nelle “alleanze” che funzionano meglio, quali sono i presupposti-chiave? Vanno a segno le esperienze dove l’unione dei due brand consente a ciascuno di trarre i massimi vantaggi, come per esempio l’aumento dell’audience. Quelle dove la collaborazione aumenta le possibilità di business: sale la fiducia del cliente a livello emozionale (e crescono gli acquisti) quando si crea maggiore “movimento” e connessione attorno ai due brand.
La “magia” del co-branding
La “magia” del co-branding è tutta qui: un partner consente di riposizionarsi sul mercato, poterne avvicinare di nuovi oppure espandersi in quelli dove si è già presenti come “singolo marchio”. L’alleanza rende infatti la percezione del brand diversa e può accendere il consumatore in modo inaspettato.
Altro vantaggio; essere in due (o anche di più) riduce i costi della pubblicità, un punto decisamente importante per le aziende più piccole o per le startup. E in ultimo: in questo complesso e incerto tempo post Covid-19, il co-marketing può rivelarsi un’ottima strada per non lasciare i progetti nel cassetto e limitare le incognite, muovendosi “in squadra”. Un esempio è l’organizzazione di un evento: l’emergenza, con la conseguente cancellazione e spostamento di molti momenti fieristici, ha creato non pochi problemi alle aziende. Collaborare per gestire un evento è una via percorribile per ridurre l’impatto di una cancellazione o rinvio dell’iniziativa.
Altro fronte da tenere alto, in termini di benefici, è l’approccio alla concorrenza: un’azienda che offre il proprio prodotto arricchito con un componente derivante da una originale azione di co-marketing si presenta al mercato con un prodotto diverso da quello dei competitor, opportunità mancata in caso di azione solitaria.
I consumatori, dal loro canto, si trovano a fare un’esperienza d’acquisto unica ed ecco che l’operazione diventa win-win. Accade con le carte di credito che valorizzano il logo di un’azienda. Chi utilizza quelle carte ottiene dei vantaggi dalla banca e dall’azienda che ha offerto il suo brand.
Niente unioni “risk-free”
L’unione di due marchi è una scelta interessante, ma forte e rischiosa: sappiamo bene che, anche con le migliori premesse, alcuni matrimoni non sono fortunati. Una possibilità che aumenta quando la partnership è “sbilanciata”: dove uno dei due brand è molto più forte dell’altro, è concreto il rischio che il primo prevarichi e il “piccolo” venga fagocitato.
Le difficoltà non mancano anche quando si uniscono aziende – e quindi persone – con realtà di riferimento e valori molto distinti. Non a caso una delle competenze-chiave dei moderni marketing manager è la capacità di relazione con persone diverse, più tipica di una figura di human resource L’accordo tra le parti va ponderato con attenzione: l’audience aumenterà solo se i partner sono compatibili e i loro valori in linea. Un plus: possibilmente le aziende coinvolte dovrebbero essere leader nei rispettivi settori.
“Mostra i tuoi amici e ti dirò chi sei”
Tra le infinite metodologie e strategie per far crescere il business, il co-branding piace perché con poco sforzo si può ottenere un enorme risultato, specie se si innesca il “fattore virale”. Se un’azienda produttrice di olio per motore fa co-branding con una casa automobilistica “top”, il suo marchio sarà percepito come di lusso, veloce, potente, sportivo, performante. Vale il principio: mostra chi sono i tuoi “amici” e ti dirò chi sei.
Chi si avvia su questi percorsi solitamente osserva in primis il proprio “circondario”: la relazione con gli attuali fornitori o con gli stessi clienti può essere fonte di agili iniziative congiunte, magari per lungo tempo sottovalutate. Iniziare con chi già conosce i nostri prodotti/servizi è un vantaggio per diversi motivi. Legati in primis all’etica, e quindi i valori: se sei etico, difficilmente avrai fornitori non-etici. Il tuo macro-sistema, quindi, già include potenziali partner.
Ma quali sono i criteri da considerare nella scelta di un’azienda per una partnership? eccone alcuni:
- Il mercato: può essere lo stesso in cui opera l’azienda oppure un segmento di quel mercato o un mercato differente in cui l’azienda non è ancora presente.
- L’area geografica: può essere mercato domestico o estero e coinvolgere integralmente un’area.
- Il settore merceologico: può essere uno collaterale, che completa l’offerta di un’azienda, o anche uno diverso purché si integri con il prodotto dell’azienda.
Quali che siano i criteri di scelta e gli obiettivi del progetto – nel marketing come nella vita – ogni operazione congiunta è un’avventura. Fatta di percorsi inediti, traiettorie che si aprono, e in primis persone. Decine di iniziative partite con una finalità si sono poi sviluppate in percorsi ampi e decisamente più articolati, toccando temi all’inizio nemmeno ipotizzati. Il monitoraggio dei risultati, e un mindset flessibile, consentono di approcciare queste azioni nel modo più consapevole, “aggiustando il tiro” quando occorre e tenendo d’occhio tutte le variabili in gioco. Buon viaggio.
Co-marketing, gli obiettivi
- Incrementare la conoscenza del marchio nel mercato in cui l’azienda è presente
- Aumentare la capacità aziendale nella Leadgeneration
- Acquisire posizioni in mercati in cui non si è presenti
- Arricchire l’offerta dei prodotti aziendali integrandoli con parti che non vengono sviluppate direttamente.
La collaborazione fra aziende è destinata a fallire se oltre ai propri obiettivi non vengono raggiunti anche quelli dell’azienda partner.
Fattore filiera, l’esperienza di Confindustria
Inquadrare le aziende associate (o target) nella più ampia catena del valore. Grazie a questo nuovo approccio le associazioni, sia territoriali che di categoria, possono migliorare la percezione esterna della loro offerta. E il sistema intero ne beneficia
Sono decine le collaborazioni Territorio/Categoria nate negli ultimi anni nell’ambito del Sistema. La logica della concorrenza interna tra associazioni ha gradualmente lasciato il posto a formule più o meno strutturate di alleanze basate su un concetto semplice: la complementarietà.
È ormai evidente che l’offerta alle imprese è più ampia e diversificata se i due rami del Sistema collaborano per accrescere il valore del brand. Ecco allora che la percezione di quanto Confindustria possa mettere in campo per accompagnare le aziende verso la crescita sale in modo esponenziale.
Proprio sulla base delle numerose esperienze di partnership interne “trasversali”, stanno partendo in questi mesi nuove forme di collaborazione centrate sul marketing di filiera. L’applicazione del modello Business Model Canvas ha infatti evidenziato l’importanza di segmentare il mercato in modo diverso, da parte di Confindustria tutta, inquadrando ogni azienda – associata o target – nella più ampia catena del valore di cui fa parte. Un approccio che orienta in modo inedito la value proposition, e implica l’attivazione e il rafforzamento tra gli attori in prima linea nella filiera, territori e categorie in primis.
Tra i Pilot al via, quello nella filiera Scienza della Vita, nel filone Gomma Plastica, nella filiera Cultura e nel mondo Nautico. Tutti con diversa declinazione, legata alla peculiarità della filiera e alla sensibilità degli attori in campo.
(Articolo tratto dal numero di aprile dell’Imprenditore)