Rileggere le Considerazioni finali pronunciate dai governatori della Banca d’Italia ci ricorda solo i nostri ritardi o aiuta a dotarci di strumenti utili per affrontare un mondo in continuo mutamento?
Le Considerazioni finali hanno consentito agli otto governatori che dal dopoguerra si sono avvicendati di esporre con personale linguaggio la propria valutazione degli accadimenti, dei problemi, delle misure attuate dai governi e di quelle che sarebbero state necessarie. Come ha posto in luce Pierluigi Ciocca, che ha curato l’opera insieme con me, i documenti hanno inscritto le vicende italiane nelle tre fasi che l’economia mondiale ha attraversato dal dopoguerra.
Nel caso italiano, il “miracolo economico” – l’economia italiana non è stata caratterizzata esclusivamente da ritardi, ma ha saputo rappresentare anche un caso di straordinario successo – la stagflazione e il ristagno che dagli anni Novanta ha preceduto l’attuale, devastante, pandemia. Per ciascuno di questi passaggi sono stati messi a fuoco i limiti e i punti di forza del nostro sistema.
L’analisi proposta con cadenza annuale da Via Nazionale non si limita a offrire una dettagliata radiografia, non si limita alla diagnosi dello stato di salute della nostra economia. Essa propone un’articolata visione d’insieme delle vicende pubbliche – non solo economiche, non solo italiane –, indicando gli strumenti utili a fronteggiare i tempi che mutano continuamente; essa offre anche la terapia.
Per esempio, con riferimento all’attualità, la via del ritorno alla crescita è tracciata nelle considerazioni finali: debito pubblico frenato, investimenti in infrastrutture, diritto dell’economia, Mezzogiorno, perequazione distributiva, concorrenza, un diverso governo dell’economia europea.
La relazione del Governatore della Banca d’Italia ha una sua ritualità e un intervallo che offre un tempo congruo alla riflessione e alla costruzione del pensiero. Oggi, invece, la velocità spesso dimentica la qualità: è un processo irreversibile?
La velocità, in sé, rappresenta un elemento positivo e di progresso. Questa domanda può ingenerare la tentazione di promuovere una riflessione su un paradosso individuato da alcuni autorevoli economisti, secondo i quali la nuova tecnologia (IT), che ha rivoluzionato la nostra vita quotidiana, non è stata in grado di imprimere alla produttività i ritmi d’incremento che ci si aspettava.
Negli anni recenti la produttività è andata scemando, in Italia, in Europa e perfino negli Stati Uniti. È necessario pertanto superare questo paradosso e riattivare il motore della crescita, cogliendo le opportunità che la tecnologia apre a produttori e consumatori.
Quanto alla possibilità di conciliare la costruzione di un pensiero alto con la velocità a cui ci sottopongono i new media, la risposta è in mano ai centri di formazione – scuole e università, in primo luogo – e ai professionisti dell’informazione.
Durante e dopo la sua esperienza in Banca d’Italia, Ciampi in numerose occasioni ha esortato i giornalisti ad avere “la schiena dritta”. L’inseguimento da parte dei media tradizionali di modelli di comunicazione alternativi, nella scelta e nel taglio delle notizie, nello stesso linguaggio, non è un obbligo né costituisce un destino ineluttabile. Anzi, personalmente sono convinto che questa scelta sia uno dei fattori che sta all’origine del crollo delle vendite dei quotidiani.
Nel nostro Paese il troppo sta conducendo al poco: troppa burocrazia, troppa pressione fiscale, troppa popolazione che invecchia stanno portando a poco sviluppo, poche occasioni per i più giovani e poca natalità. L’Italia pare non avere un equilibrio. Lo ha mai avuto? O dal dopoguerra a oggi stiamo procedendo a strappi e crolli, oltre il “normale” ciclo economico?
Negli anni Cinquanta e Sessanta l’economia italiana è cresciuta a ritmi senza precedenti, nella stabilità monetaria (la nostra inflazione era inferiore a quella tedesca). Pur con inevitabili limiti e carenze, ha costituito un caso di successo straordinario: una società agricola, povera e arcaica, in due decenni è divenuta industriale, ricca e moderna; si è catapultata nel futuro.
Negli anni Settanta, a fronte di shock terribili – ne cito quattro: la crisi petrolifera, la follia del salario “variabile indipendente”, il terrorismo, il crollo del sistema monetario internazionale –, il sistema ha saputo reagire: sebbene a ritmi inferiori che nei due decenni precedenti, il processo di sviluppo italiano è proseguito.
Negli anni Ottanta viene creata la bolla del debito pubblico che oggi grava sulle nostre spalle, ma non viene meno una prospettiva positiva per la società italiana e in particolare per i nostri giovani: il futuro era ancora guardato con ottimismo. È con gli anni Novanta e con il nuovo millennio che il sistema entra in crisi e accade una cosa gravissima: si spegne la fiducia nel futuro.
Vale la pena osservare che in un clima di diffusa euforia per l’entrata nell’euro, di retorica sopravvalutazione dei suoi salvifici effetti, la Banca d’Italia denunciò già negli anni Novanta, senza infingimenti, con assoluta “parresìa”, la gravità del problema: “Si sono fatte evidenti, soprattutto nella seconda metà del decennio, le difficoltà dell’economia italiana a tenere il passo dello sviluppo dell’economia mondiale e dell’economia europea”. La società italiana è rimasta sorda a questo monito.
Passando all’emergenza Covid-19, le banche centrali hanno ricoperto in questa fase un ruolo da protagoniste. L’espansione monetaria e la maggiore disponibilità di liquidità non stanno però raggiungendo tutti i livelli della società. Dove finiscono il compito e le possibilità del banchiere centrale e iniziano quelli della politica e delle istituzioni?
La principale risposta alla crisi europea, prima e dopo il Covid-19, è stata affidata alla politica monetaria. È stata riposta eccessiva fiducia nell’efficacia degli strumenti creditizi ed è stata trascurata la centralità di una politica economica imperniata sulla politica di bilancio e sulla modernizzazione del sistema.
L’esperienza della Banca d’Italia mostra che la politica monetaria può con successo accompagnare un processo di sviluppo, può – sotto certe condizioni – stroncare l’inflazione, ma non può far crescere l’economia di un Paese. Essa può “tirare la corda” contro l’inflazione, ma non può spingerla contro la disoccupazione. La politica e le istituzioni possono trarre l’economia del continente fuori dalle secche in cui si è incagliata.
In Italia il ricorso al debito ha rimandato per decenni la ricerca della migliore allocazione delle risorse, presentando oggi un conto estremamente duro, con pochissimi margini di manovra. Le risorse del Recovery Fund sono la nostra ultima opportunità per ripensare il Paese?
Riqualificare la spesa pubblica è possibile. Anzi, è necessario agire sulla composizione della spesa prima ancora che sui saldi di bilancio. Il Recovery Fund rappresenta un’opportunità da non lasciarsi scappare, proprio per avviare un indispensabile processo di elevamento della qualità della spesa statale.
C’è bisogno di ridurre la spesa corrente improduttiva e non socialmente utile e di realizzare un programma di investimenti con alto moltiplicatore: investimenti che si autofinanziano in virtù del maggiore reddito che generano e che sono in grado di rilanciare la produttività, di sostenere la domanda e di adeguare la dotazione infrastrutturale del Paese volta a garantire migliori condizioni di vita dei cittadini.
Stilare un trasparente e organico programma di spese in conto capitale costituisce la massima priorità del governo: i campi di azione non mancano, per questo stupisce il ritardo con cui il piano sta nascendo.
Nel film Wall Street, Michael Douglas – che interpreta il finanziere Gordon Gekko – in una conversazione risponde: “It’s all about bucks, kid, the rest is conversation”. Rispetto alle due domande precedenti, il nostro problema è davvero lo scarso margine di manovra? È solo una questione di soldi o le riforme necessarie al Paese in alcuni casi sono indipendenti dalla cassa?
Torniamo ai ragionamenti con cui abbiamo aperto la nostra conversazione: oltre agli investimenti pubblici, c’è bisogno di una politica per il Mezzogiorno, di adeguare la cornice giuridica, di modernizzare la Pubblica amministrazione, di favorire la produttività delle imprese, di perequare la distribuzione del reddito tra i cittadini, di riassorbire il debito pubblico attraverso la crescita che si può attivare riqualificando la spesa dello Stato a parità di saldi di bilancio.
No, non è solo una questione di soldi, è soprattutto un problema di volontà politica, di leadership politica e di capacità politica di coagulare il consenso dei corpi intermedi e dei cittadini attorno alle vere sfide che il Paese ha di fronte.