“Ha 48 ore libere? In due giorni visiteremo insieme i maggiori complessi industriali, potrà incontrare i colleghi che operano sul posto e fare loro tutte le domande che desidera. Sofia è a due ore di volo. Venga e si faccia un’idea di persona”. Se potesse incidere questo messaggio sulla sua segreteria telefonica, state sicuri che lo farebbe. Tutto pur di far capire che la Bulgaria può essere davvero un paese interessante agli occhi di un imprenditore. Lui è Pietro Luigi Ghia, torinese, 76 anni ben portati, amministratore di molte società italiane che hanno realizzato stabilimenti produttivi nell’area di Plovdiv, città dove vive da oltre vent’anni. Dal 2011 – dopo un primo mandato a metà degli anni Duemila – Ghia è di nuovo presidente di Confindustria Bulgaria. L’associazione, che raccoglie 320 aziende italiane attive nel paese e in larga parte piccole e medie imprese, ha festeggiato i 15 anni di attività lo scorso settembre con una cerimonia a Sofia, presso l’Ambasciata italiana in Bulgaria, alla presenza dell’Ambasciatore Marco Conticelli, di una delegazione di Piccola Industria guidata dal presidente Alberto Baban e di numerose autorità locali.
Presidente Ghia, facciamo un bilancio di questi 15 anni. All’inizio una trentina di aziende associate, oggi ben 320.
L’associazione è nata nel 2000 sotto forma di Comitato Consultivo dell’imprenditoria italiana in Bulgaria (CCIIB) su iniziativa dell’ambasciatore italiano di allora, Alessandro Grafini, il quale con grande lungimiranza intuì la necessità di creare una rappresentanza qualificata degli imprenditori attivi sul posto. È stato un percorso graduale: anno dopo anno gli imprenditori hanno compreso l’importanza di riunirsi sotto un unico organismo, di portare avanti con continuità idee e programmi per lo sviluppo delle loro attività.
Nel complesso, la maggior parte delle imprese italiane è arrivata in Bulgaria fra il 2000 e il 2006: serie, preparate e con management adeguato, hanno realizzato investimenti di diverso taglio. A partire dal 2008, con la crisi, l’industria manifatturiera ha subìto anche qui una battuta d’arresto con perdita di fatturato e di maestranze. Oggi direi che l’ingranaggio è ripartito. Non sono ancora arrivati i grandi investitori di prima, ma ci contattano diverse aziende che provano a scommettere sul paese, >
forti anche del nostro supporto. Cominciano con uno stabilimento da quindici persone e a distanza di un anno i dipendenti spesso raggiungono le settanta/ottanta unità.
Qual è il ruolo delle associazioni imprenditoriali all’estero e in che misura contribuiscono a rafforzare la presenza italiana?
Le associazioni hanno un ruolo fondamentale e, se ben dirette, possono dare tanto. Noi abbiamo la fortuna di poter contare su uno staff di collaboratori preparato e che si immedesima molto nel quotidiano degli imprenditori, supportandoli nei vari incontri istituzionali. È una disponibilità che riscontriamo anche nei collaboratori più giovani, che spesso dimostrano capacità superiori alla loro effettiva esperienza.
La Bulgaria è in ripresa. Secondo le stime, il 2015 chiuderà con un Pil in crescita del 2%. Quali fattori la rendono interessante per un imprenditore italiano?
Il paese è stabile sotto il profilo economico e finanziario. Tenga presente che non è sempre stato così. Quando nel 1994 mi sono trasferito, la moneta locale (il lev bulgaro, ndr) era “ballerina” e non è uno scherzo se le dico che ci svegliava benestanti al mattino per ritrovarsi poveri alla sera. Determinante è stato l’accordo con il Fondo monetario internazionale, che ha ancorato la moneta dapprima al marco tedesco e oggi all’euro. A rendere attraente la Bulgaria concorrono oggi anche il basso costo del lavoro, una buona produttività e una fiscalità favorevole, ma sulla lunga prospettiva il primo è destinato a crescere com’è naturale che sia. Per questo preferisco soffermarmi sulla qualità delle maestranze e sulla correttezza delle relazioni industriali. Nel dire ciò mi riferisco naturalmente a un imprenditore che non deleghi ad altri la scelta dei propri collaboratori, ma sappia che la presenza sul posto è uno dei fattori più importanti.
È di facile accesso anche per le Pmi?
Vorrei che a valutare fossero gli imprenditori stessi. A una piccola impresa, a conduzione familiare, avvicinare un paese sconosciuto e con una lingua che appare ostile può sembrare un salto nel buio. Io rispondo che se ci si documenta, ma soprattutto se si è disposti a venire sul posto e a visitare – ribadisco in 48 ore – i principali siti industriali, si possono toccare con mano le realtà esistenti e porre tutte le domande che si desidera.
E la lingua?
Conoscere la lingua è molto importante, ma è un ostacolo superabile. Glielo garantisce una persona che in 25 anni di permanenza non ha mai imparato il bulgaro e non parla nemmeno l’inglese. Ovviamente il mio resta un handicap, ma lo racconto affinché quella linguistica non venga considerata dai colleghi una barriera insormontabile.
Come sono visti gli imprenditori italiani?
Inizialmente non godevano di buona reputazione, dovuta al fatto che quelli che arrivarono con la prima ondata negli anni Novanta non furono imprenditori, bensì avventurieri. Quasi nessuno aveva una sede o un biglietto da visita con un numero di telefono.
Io e pochi altri abbiamo cominciato garantendo prima di tutto affidabilità. L’imprenditore bulgaro che lavorava con commesse italiane conosceva il mio ufficio, che peraltro è rimasto lo stesso da 24 anni, e sapeva che ero un punto di riferimento per loro. Non c’è nulla di facile all’inizio, ma se non fosse stato un paese ottimale per investire, non mi sarei fermato qui.
Qual è, a suo avviso, il giusto rapporto fra l’attività che un imprenditore apre in Bulgaria e quello che resta in Italia?
Le faccio un esempio verificabile e che riguarda il tessile, uno dei settori più colpiti dall’ingresso della Cina nel Wto. La Safil – per la quale amministro la società che ha sede nell’area di Plovdiv – è un’azienda del biellese specializzata nella filatura della lana. Quindici anni fa, quando il titolare ha intuito che il settore sarebbe entrato in crisi a causa della concorrenza cinese, ha trasferito la produzione in Bulgaria, lasciando in Italia la parte commerciale e quella legata alla ricerca di prodotto. Oggi, a distanza di tempo, grazie ai risultati conseguiti all’estero, l’azienda ha potuto investire per rilevare una tintoria italiana prossima alla chiusura, scegliendo di completare il ciclo produttivo in Italia e salvando una sessantina di posti di lavoro. Oggi quella tintoria ha 250 dipendenti. Se fosse rimasta nel nostro paese probabilmente avrebbe chiuso.
Vive in Bulgaria da prima che nel 2007 entrasse nell’Unione europea. Quali miglioramenti ha osservato?
Oltre all’intesa con il Fmi di cui le dicevo prima, credo che uno dei momenti di snodo sia avvenuto alla fine degli anni Novanta con l’arrivo di grandi gruppi industriali e in particolare di Unicredit, che nel 2002 acquisì Bulbank, la maggiore banca bulgara. Una mossa che ha incoraggiato molti imprenditori perché se una banca di primo piano come Unicredit fa questa scelta vuol dire che il paese è stato analizzato in profondità e offre sufficienti garanzie. La Bulgaria di oggi ricorda molto l’Italia degli anni Sessanta, un paese che ha voglia di crescere e lavora sodo per questo.