La mattina del 10 marzo 1946, le italiane vestono l’abito dei giorni di festa e, per la prima volta, vanno al seggio elettorale da protagoniste. Dopo 20 anni di battaglie, e in grande ritardo rispetto agli altri paesi europei, anche in Italia le donne non solo votano ma conquistano il diritto a essere votate. Il 25 giugno 1946, a Montecitorio si sente per la prima volta rumore di tacchi, quelli delle 21 deputate della Costituente. Ed è a una delle “madri costituenti”, Lina Merlin, che si devono le parole dell’articolo 3: “Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso…”. Purtroppo, dovranno passare altri 30 anni per avere il primo Ministro donna, Tina Anselmi, altri 3 perché Nilde Iotti venga eletta Presidente della Camera.
Da quel ’46, la società italiana è stata investita da grandi cambiamenti culturali, sociali, politici, economici, che la Costituzione e le leggi hanno pian piano recepito. Abbiamo dovuto aspettare il ‘63 per entrare in magistratura e nella carriera diplomatica e poi mettere una serie di mattoncini verso la parità: dall’abolizione delle tabelle salariali differenti per uomini e donne, che sancisce l’uguaglianza (solo formale) nel mondo del lavoro, alla legge sul divorzio, confermata dal referendum del ‘74; dal divieto di licenziamento delle lavoratrici per “causa di matrimonio” alla riforma del diritto di famiglia del ‘75 (parità tra i coniugi e comunione dei beni) fino alla legge di parità del ‘77. Mentre, nel frattempo, venivano aboliti il delitto d’onore, le norme penali sull’adulterio femminile e vedeva la luce la legge sull’interruzione di gravidanza. Negli ultimi 5 anni, due grandi balzi. Nel 2012 la legge 120 (che mi onoro di aver pensato, elaborato e portato all’approvazione del Parlamento con 438 voti favorevoli) che porta il numero delle donne nei CdA dal 5,9% del 2009 al 30% attuale: una vera e propria rivoluzione, anche culturale. La norma transitoria (dura per tre mandati consecutivi) introduce per la prima volta le quote di genere in Italia e ci fa essere oggi all’avanguardia in Europa. Nel 2013, le donne in Parlamento arrivano al 31% e, almeno in partenza, sono la metà dei Ministri (con dicasteri mai espugnati come la Difesa e gli Esteri). Un’altra rivoluzione a cui seguono una serie di riforme che, da una parte, rafforzano la partecipazione femminile alla politica (con le nuove norme per le elezioni europee e amministrative) e dall’altra promuovono strumenti, come lo smart working, nella direzione di un welfare più efficiente.
Settanta anni di battaglie a volte rumorose altre silenziose, centinaia di protagoniste note e milioni di donne rimaste nell’ombra hanno lottato per raggiungere una parità sostanziale e non solo formale. In tanti campi ci siamo quasi. Penso alla magistratura, dove abbiamo ormai operato il sorpasso (50,7%) o alle tante professioni in cui le donne sono ormai quasi la metà. Penso alla percentuale di laureati, che vede ormai le donne più numerose degli uomini e al recente impegno per aumentare il numero delle ragazze che seguono percorsi STEM. Penso all’esercito di “capitane coraggiose”, che rende l’Italia il Paese europeo con il maggior numero d’imprenditrici, in aumento anche nel momento più duro della crisi economica. Penso alla nomina alla presidenza nelle più importanti aziende pubbliche di tante donne (Emma Marcegaglia all’Eni, Patrizia Grieco all’Enel, Luisa Todini alle Poste, Monica Maggioni alla Rai, Gioia Ghezzi alle Ferrovie dello Stato, Catia Tomasetti all’Acea). E alla nuova squadra di Presidenza di Confindustria, composta per la metà da donne (3 Premi Bellisario).
Penso a tutti i “primati” che la Fondazione Bellisario ha voluto riconoscere e valorizzare con oltre 400 Mele d’Oro. Due Premi Bellisario per tutti: la prima donna e la prima italiana nello spazio, Samantha Cristoforetti, e la scienziata Direttore Generale del Cern che tutto il mondo ci invidia, Fabiola Gianotti.
Eppure…Eppure i traguardi da raggiungere rimangono ancora tanti.
Ai vertici, prima di tutto. Nelle imprese, dove la maggioranza dei ruoli esecutivi continua a essere maschile (nelle quotate poco più del 6% di presidenti e Ad donne); nelle istituzioni e nella politica; nella finanza, dove gli istituti bancari (Banca d’Italia compresa) sono quasi tutti a guida maschile; nell’informazione, dove le donne in posizione apicale sono mosche bianche. L’elenco è lungo…
Ma anche alla base della piramide c’è ancora tanto da fare. Solo il 51% delle donne lavora, contro al 74% degli uomini e un’italiana in media guadagna 0,47 centesimi per ogni euro guadagnato da un uomo. La carriera femminile resta più impervia rispetto a quella maschile e gli stipendi più leggeri. La maternità continua a essere “vissuta male” da alcuni datori di lavoro ma soprattutto dalle mamme che – in assenza di servizi di assistenza – spesso e volentieri sono costrette a “scegliere” tra famiglia e lavoro. Ancora oggi, il 21% di loro lascia il lavoro al primo figlio, forse anche perché il congedo di paternità resta un’opportunità di cui solo il 6,9% degli italiani usufruiscono e il 76,2% del lavoro familiare resta a carico delle donne.
Tutto questo mentre le risposte a importanti sfide poste alle società europee – tanto economiche quanto sociali e demografiche – sono strettamente legate all’uguaglianza di genere e alle politiche familiari e l’inclusione delle donne nel mercato del lavoro si conferma una chiave fondamentale per utilizzare al meglio le risorse di crescita e produttività.
Credo che in questo senso la battaglia sulle quote di genere sia paradigmatica di dove siamo arrivate sul tema della parità e degli strumenti da mettere in atto per andare oltre. Come molti, anch’io ero contraria alle quote, fin quando ho capito che era l’unica medicina per guarire una malattia che sembrava incurabile. Come parlamentare – e forte dell’osservatorio della Fondazione Bellisario – ho deciso di aiutare le donne, forzando un’evoluzione che tardava a compiersi (secondo la Banca d’Italia ci sarebbero voluti 50 anni per arrivare al 30%). Il paradigma delle quote di genere sta tutto qua: se vogliamo finalmente infrangere il famoso tetto di cristallo, è necessario essere là dove le decisioni vengono prese, e sentire la responsabilità di esserci. Più donne ai vertici delle istituzioni equivale a più politiche per risolvere problemi vitali come la disoccupazione femminile, la conciliazione, la carenza di asili (13% dei bambini italiani ne usufruiscono) e servizi. Più donne alla guida delle aziende significa un’organizzazione del lavoro più flessibile e sostenibile (ma anche, che non guasta, risultati economici migliori).
Queste donne ai vertici hanno la grande responsabilità di essere dei role model per le donne di domani – come 30 anni fa succedeva a noi con Marisa Bellisario – e allo stesso tempo hanno il dovere morale di mandare giù l’ascensore di cristallo e impegnarsi concretamente per le donne meno fortunate e per affermare il principio sacrosanto della meritocrazia. L’uguaglianza di genere non è solo una questione di valori ma una tematica centrale della modernizzazione sociale ed economica. Siamo davanti a uno snodo fondamentale e nei prossimi 10 anni ci giocheremo tanto.
Noi donne, gli uomini, le istituzioni, la politica, l’economia, il paese tutto.
Cogliamo l’occasione di questo anniversario per riflettere e andare avanti. Verso il progresso e la crescita.