Distanziamento, mascherine, misurazione della temperatura con i termoscanner e modalità smart working per la metà del personale. Anche se la fase acuta è alle spalle – e l’auspicio è che ci resti – l’organizzazione del lavoro nelle aziende è cambiata e il quotidiano è scandito dalla rigorosa osservanza dei protocolli in materia di sicurezza. Senza differenze tra Nord e Sud o tra grandi e piccole. Accade così anche alla Chime, azienda specializzata nella produzione e commercializzazione di prodotti chimici per il settore conciario con sede principale a Solofra, in provincia di Avellino, e stabilimenti anche ad Arzignano (Vi), Santacroce sull’Arno (Pi), Turbigo e Magenta, nel milanese.
Il gruppo comprende anche un laboratorio di analisi e una società in house che gestisce per tutti le attività amministrative, fiscali e finanziarie. I dipendenti ammontano a 70 unità complessive e il fatturato consolidato è di circa 46 milioni di euro. “Quest’anno volevamo sfondare quota 50 – racconta Renato Abate, amministratore delegato del gruppo. – Siamo in crescita da sette anni e per noi è molto frustrante dover fermare gli investimenti, ma dobbiamo fare delle scelte”.
Una di queste è accantonare temporaneamente lo spostamento della sede principale ad Arzignano, dove la Chime ha acquisito un immobile e aveva in programma di avviarne la ristrutturazione. Le altre riguardano il ripensamento di tutto quello che attiene alla vita dell’azienda in termini di struttura di costi, a partire dai servizi, gli approvvigionamenti e il personale “sul quale abbiamo investito e che cercheremo di non penalizzare”, aggiunge Abate. Sugli oneri, chiaramente, non è possibile intervenire perché le scadenze sono solo posticipate, salvo la cancellazione del primo acconto Irap 2020 prevista dal decreto Rilancio.
Ed è così che dati alla mano l’imprenditore ipotizza due scenari: il peggiore, con un dimezzamento del fatturato a 20 milioni di euro; e il secondo, che stima una perdita del 30% e un fatturato consolidato a fine anno intorno ai 30 milioni di euro. “Anticipare i tempi è la base di tutto, ma fare previsioni in questo periodo è davvero difficile”, aggiunge Abate.
Il Gruppo Chime è una solida realtà del Mezzogiorno, primo distributore al mondo di prodotti chimici per la multinazionale tedesca Stahl e per un 20% produttore a marchio proprio. Lo stabilimento di Solofra è classificato come sito Seveso, ovvero sottoposto a sorveglianza per le materie prime a rischio che vengono utilizzate nelle lavorazioni. Per questo motivo, ad esempio, anche nei giorni di blocco delle attività le procedure di controllo sono proseguite, benché la produzione fosse ferma.
Da quando il mese scorso le aziende hanno riaperto è ripresa la domanda, seppure in modo timido. I clienti della Chime sono le concerie italiane – piccole, medie e grandi – e tutto il settore è rimasto fermo per diverse settimane. Ciò si è riverberato sui pagamenti. “Una montagna di insoluti imbarazzante” afferma preoccupato Abate, alla quale si è cercato di porre rimedio chiedendo piccole dilazioni con le banche.
“Abbiamo chiesto sostegno per le società più piccole, nell’ordine di una cifra corrispondente al 25% del fatturato. Con la Chime, invece, abbiamo preferito evitare per non inficiare l’investimento immobiliare fatto per il nuovo stabilimento ad Arzignano. Nel frattempo la modulistica è cambiata e abbiamo ripresentato la domanda il 4 maggio. Stiamo aspettando”.
In azienda si prosegue con piani di turnazione del personale, che in parte sta in cassa integrazione e in parte lavora da remoto. È stato fondamentale ad esempio, racconta ancora l’imprenditore, rendere operative sin dai primi giorni dell’emergenza tutte le funzioni apicali del gruppo e assicurare la continuità operativa.
Resta il fatto che la domanda non tornerà ai livelli attesi prima delle fine dell’anno. La prospettiva è lavorare anche ad agosto e cercare di attutire il colpo. “Parliamoci chiaro: questa è una bella botta, ma ciò che ci preoccupa di più è la gestione dell’emergenza da parte delle rappresentanze politiche”.