
di Fabrizio Guelpa, Responsabile Industry & Banking Research Intesa Sanpaolo

FABRIZIO GUELPA
Negli anni successivi all’esplosione della crisi finanziaria le imprese italiane hanno sicuramente trovato nei mercati esteri la principale fonte di crescita. Focalizzando la nostra attenzione sui distretti industriali, tra il 2008 e il 2016 le esportazioni sono cresciute del 14%, con punte del 39% per i distretti del settore alimentari e bevande e con poche eccezioni negative (mobili ed elettrodomestici).
In un contesto di performance positive sono emerse alcune tendenze importanti. Una prima tendenza è stata quella di una crescente concentrazione delle vendite sui principali mercati. Nel 2008 nei primi quattro mercati veniva venduto già il 45% dei beni esportati; nel 2016 si è saliti al 46%. In alcuni settori la concentrazione supera il 50% (alimentari e bevande; prodotti e materiali da costruzione, soprattutto piastrelle).
Il settore con i mercati più diversificati è invece la meccanica. I principali mercati sono differenti a seconda dei settori ma tendenzialmente sono costituiti dai grandi paesi europei e dagli Stati Uniti. La crescita è stata quindi ottenuta anche aumentando il “rischio” concentrazione. Una seconda tendenza interessante è che è aumentata sensibilmente la distanza media dei mercati di sbocco, di circa 400 km, con crescite in tutti i settori e punte di 730 km per i mobili (per ragioni di costo di trasporto i mobili erano tradizionalmente esportati su mercati limitrofi). In alcuni casi si è trattato di paesi pressoché nuovi, in altri di aumenti di quote in paesi già coperti.
Gli Stati Uniti hanno dato un grande contributo, così come la Cina più Hong Kong. Spesso questi mercati sono caratterizzati non solo da una rilevante distanza fisica, ma
anche da una distanza “culturale”, che rende difficile il dialogo e l’espansione commerciale per le imprese italiane meno strutturate come quelle più piccole.
L’accresciuta distanza è solo in parte dovuta ai paesi emergenti, la cui quota attuale al 34% è solo di un punto percentuale superiore a quella del 2008, e in alcuni settori la quota destinata agli emergenti è addirittura scesa (mobili e beni di consumo della moda). Il grande boom di questi paesi è infatti anteriore al 2008 e alcuni di questi hanno vissuto ultimamente anni molto difficili (si pensi a Brasile e Russia), con impatto negativo sulle esportazioni italiane.
Occorre segnalare, infine, che l’organizzazione del commercio estero è diventata crescentemente complessa, con l’emergere di “hub” in alcuni paesi nei quali i prodotti
italiani transitano per essere esportati altrove. La concentrazione dell’export su alcuni mercati non è sicuramente un fatto nuovo. Negli Emirati Arabi Uniti, ad esempio, per via di barriere tariffarie e non (dazi, licenze, etc.), da molti anni vanno buona parte delle nostre esportazioni di gioielli, che poi sono reindirizzate in Asia (soprattutto India). Il fenomeno, però, si è esteso. La Svizzera è diventata, ad esempio, l’hub logistico di numerosi gruppi aziendali soprattutto della moda (tra gli altri vi è Gucci). Hong Kong è la porta per andare successivamente in Cina. Non a caso questi paesi sono tra quelli che hanno visto crescere maggiormente le nostre esportazioni.
Per chi fa analisi sulle prospettive commerciali, questi fenomeni rendono evidentemente molto più complesso trarre indicazioni dall’esame dei dati.
I prossimi anni dovrebbero essere comunque caratterizzati da un contesto favorevole. La crescita del Pil dei principali paesi è in accelerazione e il “rosso” che ha caratterizzato paesi importanti come Russia e Brasile è scomparso. Ma soprattutto stanno accelerando le importazioni mondiali, e quindi le nostre esportazioni potenziali. Negli anni prima della crisi il ritmo di crescita delle importazioni mondiali era pari al doppio di quello del Pil, in seguito soprattutto alla globalizzazione.
Successivamente il ritmo di crescita ha cominciato a scendere e tra il 2015 e il 2016 il commercio mondiale è cresciuto nettamente meno del Pil. Attualmente invece sta tornando a crescere, malgrado le minacce di protezionismo, su ritmi prossimi al 5% a fronte di un Pil al 3.5. Si è poi risvegliata in particolare la domanda di prodotti esteri dei paesi emergenti: Turchia, Russia, Cina, America Latina sono tornate trainanti.
Aumentare ulteriormente le esportazioni italiane non sarà comunque facile. Il cambio è oggi decisamente meno favorevole ed è difficile immaginare che possa indebolirsi a breve termine, malgrado un contesto in cui i tassi di interesse americani crescono più rapidamente di quelli europei.
È anche vero, peraltro, che in uno scenario in cui la domanda estera è brillante, l’effetto negativo del cambio può essere in parte compensato.
Il commercio estero italiano si basa poi su un numero molto elevato di esportatori. Nel complesso ci sono circa 200mila esportatori, tra imprese industriali che esportano direttamente (circa un quinto delle imprese industriali esistenti) e imprese commerciali che intermediano.
Spesso si tratta tuttavia di esportatori per importi marginali e caratterizzati da discontinuità. L’evoluzione tecnologica digitale offre, però, oggi nuove opportunità per consolidare la loro presenza, attraverso in primo luogo i canali dell’e-commerce, verosimilmente più con i marketplace che con le vendite dirette tramite sito aziendale.