Quando si parla di industria della moda, il pensiero corre subito alle grandi firme, alle sfilate, al luccichio dei grandi eventi nelle capitali dell’haute couture, Milano, Parigi, New York. Ma il dietro le quinte di tutto questo si svolge altrove, molto spesso nel cuore della provincia italiana, là dove le aziende del manifatturiero lavorano e producono, forti di un know how costruito nei decenni.
In questi giorni di stop forzato, dovuto all’ultimo Dpcm che sospende tutte le attività non essenziali, i dubbi sul futuro sono tanti anche perché fino ad ora il lavoro c’era stato, come spiega Monica Talmelli, alla guida di Famar Abbigliamento, storica azienda di Ferrara specializzata nella progettazione e realizzazione di collezioni per l’alta moda e non solo. “Ad oggi non avevamo quasi risentito dell’emergenza Covid-19 – racconta – ma si tratta di una tipicità del nostro settore, che è interamente basato sulla programmazione: si tengono le sfilate, si raccolgono gli ordini e si pianifica la produzione”.
L’azienda stava quindi ultimando le collezioni per la primavera/estate ed era già al lavoro sulla prototipazione dell’autunno/inverno prossimo con qualche incursione sulle novità estive del 2021. “C’è stata giusto qualche disdetta sul mercato cinese, come era prevedibile, ma nulla di più – spiega. – I timori sono tutti per quando saremo in primavera inoltrata. D’altra parte per il nostro settore funziona così: sentiamo la crisi dopo e ripartiamo dopo. Era già successo ai tempi del crollo di Lehman Brothers: il settore metalmeccanico accusò subito il colpo, noi ci fermammo alla fine del 2010”.
Per lo stesso motivo anche il rallentamento del traffico merci e i blocchi iniziali non hanno inficiato l’attività: “Non operando nel just in time, abbiamo scorte. Il tema degli approvvigionamenti si riproporrà più avanti”, aggiunge.
La situazione al momento resta fluida ed è difficile decifrare cosa accadrà nell’immediato futuro. I clienti di questa bella realtà ferrarese con oltre 50 anni di storia alle spalle e 120 dipendenti sono tutti nomi dell’alta moda, per i quali l’azienda cura l’attività che va dalla prototipazione fino al campionario. “A eccezione del capo spalla facciamo tutto: dall’abito da sera alla camicia sportiva fino al costume da bagno”, spiega Talmelli.
Stati Uniti e Cina sono i due principali mercati di sbocco per i prodotti di lusso dopo che l’Europa, dal 2008 in poi, ha smesso di esserlo. Quanto della produzione di Famar Abbigliamento è destinato all’uno e all’altro mercato? “È difficile rispondere. Orientativamente direi che il 35-40% va negli Stati Uniti, il 30-35% in Cina e il resto si divide fra Europa, Sudamerica e India”.
Quanto accade negli Usa e in Oriente viene quindi seguito con particolare attenzione in azienda, ma cresce la consapevolezza che questa volta lo shock potrebbe essere diverso. In particolare, la preoccupazione si riverbera sul rapporto con i fornitori. Nel caso della Famar Abbigliamento si tratta di una filiera di circa dieci imprese, che dà lavoro complessivamente a un’ottantina di persone. “Stiamo valutando come proseguire il rapporto – spiega – perché loro dipendono in modo importante dalla mia attività. Fino alla scorsa settimana, quando eravamo aperti, abbiamo regolarmente pagato manodopera e tutto. Adesso dobbiamo capire come fare”.
Dal punto di vista sanitario l’azienda si era subito allineata alle prescrizioni del Protocollo di regolamentazione firmato il 14 marzo dalle parti sociali. Chi poteva adottare lo smart working lo ha fatto, mentre al resto dei collaboratori sono state fornite le dotazioni previste, mascherine protettive e guanti. “Anche in questo caso il fatto di essere un’impresa solida e riconosciuta ci ha aiutato. Ho potuto contare su un mio storico fornitore toscano con il quale lavoriamo da quarant’anni e inizialmente abbiamo sopperito così – spiega Talmelli. – Poi abbiamo visto che nel nostro reparto di taglio alcuni materiali potevano essere adoperati per le stesse finalità e così ci siamo messi a produrli per noi”.
Autosufficienti, quindi, in fatto di mascherine? “Esatto – sottolinea l’imprenditrice – ora però stiamo studiando come poter dare una mano anche al di fuori della nostra azienda. Potremmo produrre camici e mascherine, ma dobbiamo prima capire quali sono i requisiti necessari per agire nel rispetto della salute dei lavoratori e per non incorrere in problemi legali in un secondo momento”.
Nel frattempo, l’azienda ha effettuato una sanificazione straordinaria, ha riorganizzato alcuni spazi, convertendo ad esempio una sala riunione in una seconda sala mensa per garantire maggiore distanza fra i dipendenti, e si tiene pronta per quando la riapertura sarà consentita dalle autorità. “Abbiamo sempre tutelato i nostri lavoratori – afferma – gli interessi non sono contrapposti perché la salute è un bene prezioso per entrambi, per loro come per me che sono tutto il giorno in azienda”.
Quanto durerà è difficile dirlo e qui Talmelli si lascia andare a considerazioni più generali: “Per il sistema produttivo italiano, che di botte ne ha già prese tante negli ultimi anni, credo che questa volta il colpo sarà durissimo. Oggi è difficilmente quantificabile ma temo che molte piccole e piccolissime aziende, che hanno già forti problemi di liquidità, chiuderanno”.
Secondo l’imprenditrice il sostegno, questa volta, non può che arrivare dall’Europa e da come il governo italiano sceglierà di porsi. Sicuramente avere un debito pubblico e una fiscalità elevati non aiuta. In più alcuni paesi europei, nostri vicini, potrebbero trarre vantaggio da una riduzione delle quote di mercato detenute dal nostro Paese. Ma c’è anche un altro risvolto: “L’Italia resta ancora un grande mercato di consumo – conclude –. Forse perdere noi non sarebbe come perdere altri paesi per cui auspico che qualche risposta non banale alla fine verrà data”.