
Di fronte al realismo dei mercati le generalizzazioni certo non pagano. Ma ne possiamo sicuramente sfatare una e cioè quella che la posizione geografica basti per essere un crocevia di commercio e business.
L’espressione “Italia come ponte sul Mediterraneo” ebbe, infatti, molto successo dal 1995 in poi, insieme a quelle, equivalenti, di piattaforma o “gate”. Brillanti immagini altamente comunicative, che però non hanno trovato adeguato riscontro in una Italia industriale (ma anche politica), che nel Mediterraneo non ha più di tanto trovato la sua strada, ancorché auspicabile e possibile.
I motivi sono molti e in gran parte legati alla storia individuale dei singoli imprenditori: sguardo ancora principalmente rivolto al mercato italiano e/o europeo, dimensione aziendale troppo piccola, insufficiente conoscenza delle lingue, assenza in azienda di export manager adeguati e così via. A ciò si aggiunga di volta in volta – e senza che tale elenco possa considerarsi esaustivo – la carenza di strumenti finanziari per l’internazionalizzazione e/o linee di credito sufficienti, concorrenza cinese e ora anche turca, le “primavere arabe”: il risultato è da vent’anni la bassa presenza dell’industria italiana nel Mediterraneo.
Insieme alle turbolenze politiche dell’area, oggi poi il Mediterraneo viene percepito come un’area da guardare con circospezione. Un errore che, a ragionare in termini di crudo realismo, ci potrebbe costare una irreversibile perdita di leadership in un’area in cui invece cresce il ruolo e il valore del settore privato e della visione dell’associazionismo imprenditoriale.
Prova ne sono il presidente Ali Haddad del Forum des Chefs d’Entreprise dell’Algeria che, alla luce della nuova Costituzione del paese che valorizza maggiormente il ruolo del settore privato, parla di “momento storico”; o anche l’attivismo della Cgem, la Confindustria del Marocco, guidata da Meriem Bensalah, un imprenditore (donna, ma è un dettaglio) determinato, che accompagna il Re in tutte le sue numerose azioni di diplomazia economica in Africa subsahariana e che sta stringendo accordi di collaborazione con le organizzazioni imprenditoriali africane, puntando sulla cooperazione e il partenariato sud-sud.
Una scelta di politica industriale nazionale che la dice lunga sulla perdita di attrattività di un’Europa che ha perso la capacità di far sognare il Sud Mediterraneo e non riesce più a far restare nell’area la ricchezza prodotta. Una prosperità condivisa sarebbe, invece, la risposta alla mancata crescita europea e sudmediterranea e alle turbolenze mediterranee.
“La prima vittima della crisi finanziaria internazionale è stato il ‘rischio-zero’. A partire dalla Grecia, il rischio paese è tornato anche sui mercati avanzati – ci dice Sace – “e aumenta sensibilmente nei grandi paesi emergenti (+ 4 punti), in alcune aree geografiche, in particolare Medio Oriente e Nordafrica (+ 4 punti) e America Latina (+ 2 punti). Permangono comunque molte opportunità, come Algeria, Cile, Cina, Emirati Arabi, Filippine, India, Iran, Kenya, Malaysia, Marocco, Messico, Perù, Polonia, Spagna,Turchia. Alcune di queste richiedono semplicemente una maggiore cautela a causa di squilibri temporanei”.
Fotografia veritiera: difatti non è più il rischio politico, ma piuttosto quello del terrorismo che frena maggiormente le imprese. Eppure, anche se non tocca agli imprenditori farsi carico dei compiti della politica, proprio lo sviluppo delle economie nazionali sarebbe anche la miglior risposta ad alcune esigenze, comuni e trasversali, della maggior parte dei paesi sudmediterranei.
Disoccupazione e diversificazione sono le principali e costituiscono una specie di filo conduttore che lega il Mediterraneo. La disoccupazione nel Mediterraneo si colloca in una fascia che nel 2014, secondo Banca Mondiale, va dal 13,3% della Tunisia al 12,8% in Iran e al 10, 2 % del Marocco ed è oggi il grande problema endemico del Mediterraneo: la Tunisia, ad esempio, ha investito moltissimo sulla formazione dei suoi giovani, anche perché si aspettava dall’Unione europea e dalle imprese europee quegli investimenti (l’abbiamo già ripetuto anche da queste pagine) che non ci sono stati.
L’Unione europea, infatti, ha continuato a fare progetti, ma la risposta concreta tarda. In Italia anche il lessico evidenzia questo iato: le parole usate per l’internazionalizzazione in questi anni sono state “sfide”, “opportunità, “ aggredire o conquistare i mercati”. Un approccio “verticale” che prescinde, invece, da quello orizzontale del partenariato, del cosviluppo e del rapporto win-win, paritario. E che si sta ripetendo anche per l’Iran, paese che deve dare alla sua giovanissima popolazione servizi e welfare e non solo infrastrutture e che deve sdoganarsi dal petrolio, così come l’Algeria e come aveva cominciato a fare la Libia. E come devono fare gran parte dei paesi dell’Africa subsahariana, ricchi di petrolio e gas, ma che non sanno ancora conservare con una adeguata catena del freddo i prodotti alimentari e consumano magari pomodori italiani inscatolati dai francesi. Riassumendo: diversificare l’economia, come molti paesi in ritardo di sviluppo dell’Africa subsahariana stanno facendo.
Mentre l’Europa disperde energie sui suoi rapporti interni e lancia consultazioni pubbliche sull’orizzonte 2020 per i paesi Africa-Caraibi-Pacifico, in Africa si lavora all’area tripartita di libero scambio (Tfta) per la creazione della più grande area commerciale integrata del continente che legherà 26 paesi dall’Egitto al Sudafrica, integrando le tre aree di libero scambio già esistenti (Comesa, Sadc e Eac): seicentoventicinque milioni di persone e 900 miliardi di dollari di Pil.
Forse alla luce di questo si capisce perché la business community del Marocco guardi al suo sud africano. Ma anche perche il Mediterraneo è – e resta – il cuore dell’Europa. Il dibattito è aperto.