L’emergenza sanitaria scoppiata per la pandemia da coronavirus sarà probabilmente ricordata sui libri di storia come la peggiore crisi dal dopoguerra ad oggi per il suo impatto sistemico sulla vita delle persone e della comunità internazionale. Il tributo di vittime pagato in particolare dall’Italia e i numeri crescenti che si osservano in Europa e nel mondo lo rendono un evento drammatico oltre ogni immaginazione e del quale è molto complesso capire l’evoluzione. Ci abbiamo provato, per quanto riguarda gli aspetti economici, con l’aiuto di Stefano Manzocchi, Direttore del Centro Studi Confindustria.
Come si definisce quanto sta accadendo?
Al di là degli aspetti umani e sanitari, che sono e restano la cosa più importante, dal punto di vista economico siamo di fronte a un fortissimo shock esogeno temporaneo, di cui non conosciamo la durata. Oltre a sconvolgere la nostra vita di tutti i giorni, tale shock sta avendo ripercussioni su tutta l’economia, dal lato dell’offerta con la contrazione di produzione, servizi e lavoro, dal lato della domanda con la contrazione di consumi, investimenti ed esportazioni. Tutte le variabili sono inevitabilmente coinvolte.
Qual è il primo impatto sul sistema produttivo italiano?
Premesso che il nostro Paese si stava lasciando alle spalle un rallentamento durato per tutto il 2019 e stava cominciando a vedere i primi segnali di stabilizzazione, questo shock ci colpisce in modo forte. In primis, perché l’Italia è il primo paese europeo per numero di casi e loro virulenza, in secondo luogo perché siamo un’area economica fortemente interrelata con i nostri vicini. Dal dopoguerra ad oggi, persone, beni, servizi e capitali non hanno mai smesso di muoversi da e per l’Italia; lo stop richiesto per contenere l’espandersi dell’epidemia ci danneggia quindi in modo particolare.
Ci sono filiere più a rischio?
La filiera turistico alberghiera, la ristorazione, i trasporti e la cultura sono quelle che hanno accusato per prime il colpo. Anche quando il fenomeno era ancora limitato ai casi cinesi, si era già osservata ad esempio una forte riduzione dei flussi turistici provenienti dalla Cina in Europa. Detto questo, anche il sistema manifatturiero è interessato. A prescindere dal blocco ordinato dal Dpcm del 22 marzo, l’attività sta rallentando per le difficoltà di spostamento di persone e beni e, insieme, per il clima di apprensione che non facilita i consumi.
Le misure varate dal governo a sostegno delle imprese e dei lavoratori vanno nella giusta direzione?
Con il decreto Cura Italia il governo ha pienamente riconosciuto la drammaticità dell’emergenza. Lo si deduce dal fatto che le risorse finanziarie stanziate, e autorizzate dal Parlamento in scostamento rispetto agli obiettivi di bilancio, verranno impiegate immediatamente. Ciò detto riteniamo che si tratti solo di un primo passo e che dovranno essere trovate altre modalità e altre risorse – sia nazionali che europee – per mettere il sistema produttivo in sicurezza. Con una precisazione: l’Italia ha un grosso problema di debito pubblico per cui dovrà fare fronte all’emergenza cercando di contenerne il più possibile l’aumento. I provvedimenti adottati agiscono su tre fronti: lavoro, fisco e credito. Le misure per la tutela del lavoro sono rivolte a tutti i tipi di imprese e includono i lavoratori autonomi. La durata dell’intervento è la vera variabile, nove settimane potrebbero infatti non essere sufficienti per superare l’emergenza. I provvedimenti in materia fiscale sono in divenire per cui ne andranno monitorati gli aggiustamenti e le applicazioni ed anche le misure sul credito lasciano spazio a ulteriori interventi.
Veniamo all’Europa. La Bce, dopo un iniziale tentennamento che ci è costato una fuga in Borsa dai titoli di Stato italiani, ha cambiato passo. Come valuta il nuovo piano di acquisto di titoli da 750 miliardi di euro, il cosiddetto Pepp (Pandemic emergency Purchase Programme)?
L’operazione della Bce è stata decisiva, tenendo presente che di queste risorse almeno 100 miliardi serviranno all’Italia e andranno erogate con criteri meno stringenti. Ciò detto, la politica monetaria da sola non basta. Bisognerebbe seriamente pensare a una politica fiscale comune che passi dallo strumento degli eurobond. In questo modo ci si potrebbe mettere al riparo dalle speculazioni sugli spread, che, come un virus, sono il vero male dell’economia europea e danneggiano famiglie, banche, imprese. D’altra parte, se gli eurobond non vengono messi a punto adesso, sarà difficile per l’Europa mantenere una credibilità nella sua capacità di fare fronte alle crisi. Privarsi di questo strumento in una situazione del genere sarebbe una risposta irrazionale. Per citare Primo Levi, “se non ora, quando?”.
La difficoltà di approvvigionamento di alcuni beni verificatasi in queste settimane pone alcune domande. Dopo la pandemia sarà forse il caso di rivedere le catene del valore? E magari di non delegare troppo la nostra capacità produttiva alla Cina?
È presto per trarre conclusioni. Veniamo da anni difficili, caratterizzati da guerre commerciali e movimenti migratori. Bisogna vedere come questa crisi sarà affrontata e risolta. L’Europa è e resta una grande piattaforma produttiva contraddistinta da fortissime relazioni di interscambio fra i paesi. Tenga presente che il 60% dell’export europeo avviene all’interno del continente. Accorciare le catene del valore mantenendole in Europa può essere un antidoto, ma se la risposta alla crisi non sarà tempestiva anche le relazioni tra le industrie europee saranno messe alla prova.
Per semplificare: le mascherine vanno prodotte in Europa?
Devono, insieme ai respiratori. Dobbiamo potenziare il nostro sistema sanitario e fare di tutto per mantenere il nostro sistema produttivo, economico e finanziario il più sano possibile. Se non si affronta la questione a livello europeo il rischio è che, conclusa l’emergenza, il sistema nordamericano e quello cinese siano un passo avanti a noi.
Articolo pubblicato sul numero di aprile dell’Imprenditore