
Anche se da un punto di vista strettamente legale l’azienda prende vita nel 2012, le origini di Tenute Marchesi di Rampingallo risalgono addirittura al 1247, come fa capire la documentazione conservata dalla famiglia Russo Messina, proprietaria del marchio. Nel quartier generale di Salemi, in provincia di Trapani, lungo la regia trazzera ora diventata la strada statale 188, l’impresa siciliana produce il vino che viene da 21 tipologie di uva coltivata su 270 ettari di vigneto a corpo unico. Il tutto per un fatturato costruito per la quasi totalità da esportazione sui mercati internazionali, dove Tenute Marchesi di Rampingallo fa arrivare anche olio, pasta, una linea di sott’oli, marmellate e paté lavorando prodotti provenienti esclusivamente dai propri terreni. Ne parliamo con il titolare Vito Russo Messina (nella foto in alto).
Quali sono gli obiettivi di Tenute Marchesi di Rampingallo?
Vogliamo principalmente allargare il nostro business nelle zone del mondo in cui non siamo ancora presenti. Questo perché al momento l’Italia per noi è poco interessante se paragonata a quei mercati esteri che danno più possibilità, risultando maggiormente intriganti e che portano il 90-95% delle entrate complessive di Tenute Marchesi di Rampingallo. In particolare, oltre agli Stati Uniti, mi riferisco ad Africa da cui viene il 12% del nostro fatturato e Medio Oriente, dove il made in Italy è apprezzato moltissimo. In queste zone geografiche, ovviamente escluso il periodo del Ramadan, hanno la possibilità di bere il vino dealcolizzato che portiamo da 13 ai 9 gradi alcolici permessi dalla loro religione. Inoltre, tramite la Camera di commercio italiana a Dubai, abbiamo aperto un ufficio di rappresentanza in loco.
In questi anni di crisi, quanto la ricerca del successo sui mercati internazionali è stata una scelta e quanto una necessità per la sua azienda?
Per noi è stata una decisione obbligata. Quando è arrivata la pandemia eravamo appena partiti con il progetto che ci ha poi fatto diventare non più solo produttori d’uva conto terzi, ma anche, in prima persona, di vino di qualità. I miei figli tenevano molto a creare una nuova veste aziendale, a mettere in commercio magari poche bottiglie ma di un certo livello. E così, rimanendo sempre un’impresa familiare, siamo riusciti a ritagliarci spazi anche nel settore delle compagnie aeree asiatiche, che ci hanno chiesto bottiglie con tappo a vite, delle navi da crociera, ma pure delle catene alberghiere che dispongono di ristoranti interni alle strutture.
Serviamo infine anche la grande distribuzione italiana, pur con un vino meno pregiato rispetto a quello che si può trovare in ristoranti ed enoteche.
In particolare, come avete affrontato i mesi successivi alla pandemia? Come ha reagito Tenute Marchesi di Rampingallo a queste necessarie ripartenze?
Ci siamo principalmente dedicati ad Internet, decisivo nel ristabilire il contatto con i clienti e con chi ci chiedeva notizie sui prodotti. L’e-commerce poi ci ha aiutato molto a chiudere la filiera dalla campagna alla tavola del consumatore, che fosse vino, olio o altre nostre produzioni. Questo perché disponiamo di un frantoio, un molino con logicamente numeri distanti da quelli della parte vinicola.

ESPOSIZIONE AD UNA FIERA – TENUTE MARCHESI DI RAMPINGALLO
Quale metodologia di ingresso avete adottato per fare business oltreconfine e come promuoverete il vostro vino sui mercati internazionali?
Abbiamo iniziato col frequentare fiere e stiamo continuando su questa direttrice commerciale. Periodicamente, con l’aiuto di nostri collaboratori sul territorio, organizziamo degustazioni mirate in Francia, Bulgaria, Nord Europa, Paesi Bassi ed abbiamo trovato persone veramente interessate pure negli Stati Uniti, in particolare in California, Florida e nello stato di New York. Ripeto, il prodotto italiano è ben visto e considerato nonostante le nuove norme europee di etichettatura abbiano cambiato un po’ le carte in tavola”.
Nel vostro percorso di crescita in Africa e Medio Oriente siete stati supportati da strutture pubbliche e/o da società di consulenza private?
Certo. Ci ha sempre accompagnato l’Ice e in certi contesti abbiamo potuto contare sui consigli e il puntuale supporto di Assafrica. Punti di riferimento che hanno facilitato la comprensione delle specificità di ogni singolo paese.
Come sono cambiati l’atteggiamento e l’interesse dei consumatori stranieri nei confronti del vino italiano?
Beh, posso dire che lo considerano perlomeno sullo stesso piano di quello imbottigliato dai cugini francesi. È visto come qualcosa di genuino e allo stesso tempo di alta fascia qualitativa. Inoltre, viaggiando oltreconfine per fiere ed altri appuntamenti, mi sono reso conto di quanto ci apprezzino pure per le competenze maturate nel settore industriale e edile.
Il Sudafrica ha una storia vinicola in forte e continuo sviluppo. Com’è stato entrarci in contatto e successivamente inserirsi in questo contesto? Ha riscontrato difficoltà di qualche tipo?
Parecchie, perché i sudafricani hanno vitigni internazionali di livello e perciò sono estremamente attaccati al prodotto locale. All’inizio ho riscontrato diffidenza, forse motivata dal fatto che loro sono abituati ad uno Chardonnay diciamo più leggero, a fragranze diverse da quelli dei vini italiani. Quello imbottigliato da Tenute Marchesi di Rampingallo è infatti molto profumato e all’inizio hanno fatto fatica a capire il bouquet di fiori generato dalle uve coltivate con il fondamentale aiuto del sole siciliano.
Quali sono i vostri piani futuri? Avete già in mente di sbarcare su nuovi mercati?
Nel mese di marzo, intanto, abbiamo già partecipato a cinque fiere internazionali e ci prepariamo a potenziare la presenza dei prodotti di Tenute Marchesi di Rampingallo in zone degli Stati Uniti finora inesplorate appena arriveranno le autorizzazioni richieste. A settembre, poi, riprenderemo a far degustare in giro per il mondo ciò che regalano di buono i terreni di famiglia.
Quale consiglio si sente di dare agli imprenditori che intendono affacciarsi negli stessi contesti esteri?
Serve pazienza e assoluta perseveranza. Ed è necessario un diverso approccio rispetto a quello si usa nel mondo occidentale. Questo perché, come compreso per esempio durante i viaggi in Giappone, non hanno fretta nel vivere e di sicuro impiegano il tempo in modo migliore rispetto a noi. Ora, comunque, la fatica sembra essere più che ripagata da ordini consistenti, anche se, nella quasi totalità dei mercati in cui siamo attivi, continuiamo a doverci confrontare con una concorrenza assai agguerrita.
(Prossima uscita: 14 aprile)
Articoli precedenti:
Meghini (Metalmont): “L’Africa è ricca di opportunità”
Cesarini (Aviogei): “La nostra presenza in Africa è capillare”
Dal Pozzo (Sodimax): “Lavorare in Africa significa andare in Africa”
Martini (Studio Martini Ingegneria): “In Africa e Medio Oriente il mercato c’è”
D’Alessandro (Eemaxx Innovation): “In Africa l’Italia sia paese capofila per l’energia”
Chelli (Trusty): “Con la blockchain valorizziamo le filiere in Africa”
Pagliuca (PB): “Pronti a investire in Costa d’Avorio”