Il 25 marzo 1957 sei paesi (Belgio, Francia, Germania, Italia, Lussemburgo e Paesi Bassi) firmarono i Trattati di Roma, su cui si è poi costruita l’Unione europea.
Da allora, in Europa, si è registrato un processo costante sia di approfondimento istituzionale del processo di integrazione che di suo allargamento a nuovi stati. La storia ha continuato a soffiare sulle vele dell’aggregazione. In molti hanno pensato che l’esito inevitabile fosse la ricomposizione dell’intero continente all’interno di un’unica organizzazione politica, gli Stati Uniti d’Europa. Dopo tutto, questo era stato il grande sogno di pionieri dell’europeismo come Altiero Spinelli e Ernesto Rossi che, nell’isolamento di Ventotene, elaborarono nel 1941 un “Manifesto per un’Europa libera e unita”.
Da allora la formazione di una federazione europea è stata considerata la necessaria risposta ai demoni dei nazionalismi europei. Demoni che avevano condotto a due guerre mondiali e alla distruzione materiale e morale dell’Europa. All’inizio del processo di integrazione, una motivazione, quindi, fu preminente su altre: garantire la pace nel continente. Dopo tutto, senza la pace non si potevano creare le condizioni dello sviluppo e, senza lo sviluppo, sarebbe stato difficile consolidare le giovani democrazie nazionali post-belliche.
Così l’Ue è divenuta la forma istituzionale che ha cercato di ricomporre le esigenze della pace, dello sviluppo e della democrazia. Naturalmente, la sua istituzionalizzazione è passata attraverso numerose crisi. Nonostante queste ultime, però, l’Ue è riuscita ad aggregare la quasi totalità degli stati europei.
Tuttavia, a sessant’anni dai Trattati di Roma, lo scenario del processo di integrazione è cambiato in modo radicale. A partire dal 2008, l’Europa è stata sommersa da un vero e proprio tsunami, la crisi finanziaria che ben presto è diventata la crisi della moneta comune, l’euro, vero e proprio simbolo del passaggio da una comunità economica ad un’unione con finalità politiche. Nessuna crisi finanziaria è mai durata così a lungo. Quindi, alla crisi finanziaria si è aggiunta la crisi migratoria. Una crisi che raggiunse il suo apice nell’estate del 2015, quando un milione di rifugiati siriani attraversò le frontiere dell’Ue per fuggire dai disastri della guerra civile e religiosa in corso nel loro paese.
Tale crisi è stata a sua volta ingigantita da enormi spostamenti di popolazioni provenienti da altre aree di conflitto civile e religioso (Somalia, Eritrea, Libia, Yemen, Afghanistan), oltre che da aree di povertà economica estrema (Africa sahariana). Quindi, queste crisi sono diventate ancora più intrattabili, intrecciandosi con attacchi terroristici ripetuti e di violenza inaudita in alcune città europee, come il drammatico attentato terroristico compiuto a Parigi nel novembre 2015, che seguiva un altro grave attentato, compiuto sempre a Parigi, all’inizio dello stesso anno.
A fronte delle difficoltà dell’Unione europea ad affrontare con efficacia le sfide provenienti da tali crisi multiple, le opinioni pubbliche dei suoi stati membri si sono mobilitate in direzione sempre più nazionalistica. Movimenti e sentimenti nazionalistici si sono affermati ovunque, anche se la richiesta di ri-nazionalizzazione della politica domestica ha avuto caratteristiche diverse. Tuttavia, non si era mai registrata nel passato la formazione di movimenti anti-europeisti così diffusi in quasi tutti gli stati membri.
La pressione per la ri-nazionalizzazione delle politiche domestiche ha raggiunto quindi il suo apice con la decisione del Regno Unito di uscire dall’Unione europea, dopo che il referendum popolare del 23 giugno 2016 ha assegnato la vittoria ai favorevoli all’uscita (Brexit) piuttosto che alla permanenza (Bre-remain).
Così, dopo che per 60 anni l’agenda europea era stata scandita dal tema dell’allargamento, ovvero della richiesta di integrazione di un numero crescente di paesi, prima della parte occidentale e quindi di quella orientale del continente, con la Brexit l’agenda europea è cambiata in modo sostanziale.
La questione è divenuta come gestire le spinte alla disintegrazione, non già come regolare le richieste di integrazione. Per di più, l’arrivo di Donald Trump alla presidenza degli Stati Uniti nel gennaio di quest’anno ha alterato in modo radicale l’equilibrio transatlantico su cui si era basato il processo di integrazione europea sin dai Trattati di Roma. Sarà sempre più difficile, per l’Europa, supplire alle proprie debolezze ricorrendo al sostegno, se non alla mediazione, degli Stati Uniti. Con la Brexit e la presidenza Trump un ciclo politico, durato ben più di mezzo secolo, si è concluso. Andare avanti come se niente fosse successo non è giustificabile.
È in tale contesto che vanno inserite le iniziative che si svolgeranno a Roma il 25 marzo 2017 per celebrare i sessant’anni di vita dell’Unione > europea. Occorre ripensare il sistema decisionale che l’Ue si è data. Le crisi multiple del secondo decennio del Duemila, e quindi la Brexit, hanno attivato spinte centrifughe che l’Europa non è riuscita ad affrontare per la debolezza delle sue istituzioni. Anzi, un vero e proprio stallo decisionale si è manifestato nel sistema istituzionale, uno stallo che ha incentivato, a sua volta, la ricerca di soluzioni nazionali. Quello stallo è dovuto alle divisioni tra i governi nazionali, che hanno rivendicato un ruolo decisionale centrale attraverso le istituzioni intergovernative del Consiglio europeo e del Consiglio dei ministri.
L’approccio intergovernativo, in condizioni di crisi che hanno avuto effetti redistributivi, ha finito per creare gerarchie decisionali, a favore degli stati forti creditori e a danno degli stati più deboli debitori.
La sfiducia tra stati ha dato vita a soluzioni regolative sempre più centralizzate. L’Unione europea, e l’Eurozona in particolare, si sono centralizzate senza democratizzarsi. Si sono svuotate le democrazie nazionali (i cui poteri sono limitati, ad esempio nelle politiche di bilancio), senza creare una democrazia sovranazionale.
A dirla tutta, l’Unione europea si è smarrita, ha perso il senso del futuro senza al contempo acquisire la consapevolezza delle difficoltà del presente. Ecco perché la crisi europea è stata, e continua ad essere, la conseguenza dell’intreccio tra grandi cambiamenti e piccole istituzioni. Essa si è manifestata come crisi istituzionale, ma riflette anche una crisi di visione.
Le difficoltà dell’integrazione sono state ingigantite dalla debolezza delle istituzioni costruite per governarla, ma anche dall’assenza di un’idea sul suo futuro.
La Dichiarazione che uscirà dalle celebrazioni romane del 25 marzo 2017 dovrà indicare una strategia per uscire dallo stallo e per neutralizzare i nazionalismi che stanno risorgendo ovunque.
Con la Brexit l’agenda europea è cambiata in modo sostanziale. Oggi la questione è come gestire le spinte alla disintegrazione