Conclude il suo primo biennio alla guida di Confindustria. Un bilancio di questo e un programma di lavoro per il prossimo.
La Confindustria in cui crediamo è una grande squadra in cui è prezioso il contributo di tutti. E che si pone come ponte tra gli interessi delle imprese e quelli del Paese.
Con questo spirito abbiamo presentato a Verona, davanti a settemila imprenditori provenienti da tutta Italia, un piano organico di politica economica che individua strumenti, risorse e tempi ed effetti sull’economia reale con la mission di dare centralità al lavoro, incrementando l’occupazione nel Paese a partire dai giovani e definendo le precondizioni di più crescita contenendo allo stesso tempo il debito pubblico.
Con lo stesso spirito abbiamo firmato con Cgil, Cisl e Uil il Patto della Fabbrica per un nuovo modello di relazioni industriali, dando centralità alle persone e al lavoro e definendo alcuni importanti argomenti su cui confrontarsi come, ad esempio, la formazione dentro e fuori le fabbriche, l’inclusione dei giovani. Un salto culturale, prim’ancora che sindacale, dal momento che si passa dal conflitto al confronto per la competitività, condividendo il principio che salari più alti si possono avere aumentando la produttività. Fabbriche più competitive, puntando sulla produttività e dando centralità alle persone, sono la vera sfida del Paese.
Siamo inoltre impegnati in Europa dove, soprattutto con i nostri colleghi tedeschi e francesi, oltre che con BusinessEurope, stiamo lavorando per tenere fermi i temi industriali al centro del dibattito politico dell’Unione. Con le Confindustrie dei sette paesi più sviluppati al mondo siamo d’accordo nel respingere una politica di chiusura commerciale e nel promuovere, invece, il libero scambio. Nell’ambito del B7 che si è svolto di recente in Canada abbiamo firmato una dichiarazione congiunta che ha tra gli obiettivi più qualificanti la crescita dimensionale delle Pmi. Un tema di straordinaria importanza per noi, che sarà portato all’attenzione dei Governi al prossimo G7. Il solco delle cose da fare è segnato.
Da sempre la questione temporale per Lei è centrale. A giudicare dallo stallo che si è verificato subito dopo le elezioni, la politica non è dello stesso avviso. Come si inverte questa tendenza? Cosa può fare Confindustria?
Non è solo una questione di tempi – che, quando si dilatano troppo, non giocano certo a favore della capacità competitiva di un Paese – ma anche di contenuti.
Confindustria ha posto l’attenzione sulla centralità del lavoro, sulla riduzione del cuneo fiscale, sull’inclusione dei giovani, sulla necessità di un piano strategico per le infrastrutture, sui tempi della giustizia, sull’efficienza della Pubblica amministrazione.
Per governare un Paese ricco e complesso come il nostro c’è bisogno di competenza e responsabilità. Ci auguriamo siano sempre le stelle comete del nostro agire
collettivo.
Confindustria, come dicevamo, il suo contributo di idee nell’interesse del Paese l’ha dato ma, soprattutto, ha lavorato per una stagione di ammodernamento dell’apparato
industriale italiano grazie anche alla disponibilità di nuovi strumenti, primi fra tutti Industria 4.0 e il Jobs Act. Due leve per lo sviluppo e la crescita che il nuovo esecutivo farebbe bene a potenziare a vantaggio del Paese perché possa difendere con orgoglio la sua posizione di seconda manifattura d’Europa.
Anche la revisione della spesa è scomparsa dalle preoccupazioni della politica e dell’opinione pubblica. La risalita del Pil ha già fatto dimenticare i duri anni di crisi?
C’è stata un’inversione di tendenza, ma non dobbiamo commettere errori perché il rischio di tornare indietro è molto alto. Di spending review in effetti si parla poco o comunque, a nostro avviso, non nel modo giusto. Mentre invece dovrebbe essere un argomento di confronto serio poiché potrebbe liberare risorse da destinare allo sviluppo. Quando parliamo di revisione della spesa non intendiamo tagli lineari, ma processi che vanno riformati. Nel nostro documento di Verona, su un perimetro di spesa aggredibile di 350 miliardi, abbiamo stimato un risparmio dell’1% l’anno nel quinquennio di legislatura. Un obiettivo a portata di mano, da realizzare con team multidisciplinari composti da esperti delle amministrazioni, coordinati dalla presidenza del Consiglio.
Il Patto per la Fabbrica ha riaffermato il ruolo delle parti sociali in un momento storico nel quale sembra prevalere la logica della disintermediazione. Quali sono i prossimi passaggi dell’accordo?
L’accordo impegna Confindustria e sindacati a lavorare su tre fronti. Primo fra tutti quello della rappresentanza, in cui si conoscerà il peso reale dei sindacati e si definiranno i criteri per misurare la rappresentanza delle associazioni datoriali. Il Cnel identificherà i soggetti maggiormente rappresentativi e poi definiremo insieme le regole.
Il secondo fronte su cui saremo impegnati è quello della contrattazione collettiva. Vogliamo contrastare il dumping contrattuale attraverso l’individuazione del “contratto collettivo di riferimento” per ogni categoria.
Pensiamo che lo Stato debba concedere i benefici previsti dalla legislazione (incentivi, decontribuzione o detassazione dei salari) solo a chi applica il contratto collettivo di categoria stipulato dalle associazioni sindacali e datoriali più rappresentative. Il terzo fronte, invece, prevede l’individuazione di proposte condivise su alcuni temi contenuti nell’accordo: welfare, sicurezza, formazione, politiche attive e partecipazione.
Si tratta di argomenti di grande rilevanza non soltanto per le relazioni sindacali ma, soprattutto, per il nostro sistema di protezione sociale, che deve essere non solo più inclusivo, ma anche più equo.
Fra gli interventi di politica industriale del Governo negli ultimi anni, il più significativo è stato probabilmente il piano Industria 4.0. Le imprese italiane hanno raccolto la sfida alla modernizzazione? E come devono proseguire?
Il piano Industria 4.0 senza dubbio ha segnato l’inizio di una nuova fase in cui, attraverso un approccio organico, è stata individuata una strategia di sviluppo per il Paese, fondata sull’industria e sulla sua trasformazione in chiave digitale. Le misure messe in campo hanno prodotto risultati significativi, con un +30% di investimenti industriali privati nel 2017 e un +15% in quelli in ricerca e innovazione, oltre a un netto incremento degli investimenti in tecnologie digitali.
Sono dati che premiano le politiche attuate nel 2017 e confermano che l’Italia ha una base manifatturiera molto solida, che ha saputo rispondere con prontezza alla sfida
dell’innovazione.
Tuttavia abbiamo un grandissimo potenziale da esprimere e sono ancora tante le imprese che devono avviare processi di modernizzazione. È per questo che abbiamo sollecitato il Governo a proseguire nell’attuazione di tutti gli interventi del piano e apprezziamo che con la Legge di bilancio 2018 sia stata data continuità alle misure che hanno determinato risultati così importanti.
A maggio 2016 avevamo lanciato l’idea della politica dei fattori per un Paese competitivo e in tale direzione si è orientato il piano Industria 4.0 con rilevanti effetti sull’economia reale. Ora, come emerso a Verona, dobbiamo passare alla politica delle mission: prima definendo gli effetti sull’economia reale, poi individuando strumenti e risorse. Un cambio di paradigma di pensiero che è stato il metodo delle nostre Assise.
Questione lavoro, questione giovani. Cosa è stato fatto e cosa resta da fare per non perdere generazioni di capitale umano, spesso iperqualificato ma non valorizzato?
Negli ultimi anni sono stati fatti molti passi avanti per favorire la collaborazione tra il mondo dell’istruzione e quello dell’impresa, primo fra tutti l’alternanza scuola-lavoro
obbligatoria. Ora bisogna puntare su un efficace piano di orientamento scolastico, che fornisca dati oggettivi sul fabbisogno delle imprese ai giovani e alle loro famiglie.
È giusto sapere che nei prossimi cinque anni, come il nostro vice presidente al Capitale Umano Gianni Brugnoli non si stanca di ripetere, serviranno 280mila persone, di cui il 40% under 29, nei settori meccanico, del tessile e della moda, chimico, alimentare e digitale.
È inoltre importante investire sugli Its: occorre arrivare a 30mila iscritti ed eliminare gli ostacoli che frenano la crescita di questo canale formativo grazie al quale oltre l’80% dei diplomati trova lavoro entro l’anno e, nei territori con un tessuto produttivo più sviluppato, si arriva anche al 100%.
Un altro segmento su cui lavorare è il dottorato di ricerca. È proprio qui che si rischia di perdere giovani iperqualificati che non trovano spazio nelle nostre imprese.
Dobbiamo quindi fare in modo che i PhD possano essere agevolmente inseriti in azienda per fare ricerca industriale. Occorre un grande piano massivo di inclusione giovani al lavoro, decontribuendo e detassando totalmente le nuove assunzioni incrementali.
Dietro il pensiero economico di Confindustria c’è un’idea di società inclusiva e aperta. Anche le infrastrutture per noi collegano territori a centri e il Paese al mondo, rientrando nella visione di società inclusiva.
La guerra commerciale esplosa fra gli Stati Uniti e la Cina rischia di innescare una spirale di ritorsioni protezionistiche con pesanti danni all’economia mondiale. Quali azioni sta portando avanti Confindustria per rafforzare la risposta europea?
Assieme ai partner europei e a Business Europe, abbiamo espresso chiaramente la necessità di evitare una spirale di misure protezionistiche e una guerra commerciale, che rischierebbe di danneggiare moltissimi settori dell’industria italiana. In parallelo, attraverso un dialogo costante con i rappresentanti del Governo e della Commissione europea, abbiamo ottenuto che, nell’ambito delle decisioni sulle eventuali contromisure a livello europeo, le istanze dei settori colpiti venissero tenute in considerazione. Il che conferma l’importanza dell’Europa. E, infatti, la sfida è tra Europa e mondo esterno, non tra paesi e governi dell’Unione.
La vocazione all’export tipica della nostra industria può rappresentare in questo momento un handicap? E quali margini ha l’Italia, all’interno della politica commerciale
comunitaria, per fronteggiare al meglio la congiuntura?
La politica commerciale Ue può e deve svolgere meglio i compiti per cui è stata concepita. Anzitutto contrastando le pratiche commerciali illecite e sleali – come il dumping – e le sovvenzioni statali che alterano la concorrenza nel commercio degli investimenti.
In secondo luogo aprendo nuove strade alle nostre produzioni attraverso accordi di libero scambio sempre più ampi e ambiziosi. Inoltre, Bruxelles deve stabilire le alleanze necessarie per realizzare ciò che Confindustria chiede da anni: un’Organizzazione mondiale del commercio efficiente e funzionale. Innanzitutto, però, occorre un forte intervento organico di politica economica dell’Unione che punti sulla competitività dell’industria europea.
Passando a un altro argomento, come spiega la rinnovata attenzione da parte delle imprese alla cultura, alla promozione dell’arte e alla valorizzazione del paesaggio? Qual è il ruolo di Confindustria?
I confini tra l’interesse aziendale e quello della collettività, nel tempo, si sono molto ridotti, arrivando quasi a coincidere. Quindi, in un contesto di interessi comuni, le imprese
compiono atti di responsabilità sociale con l’attenzione all’arte, alla cultura e al rispetto per il paesaggio.
In questo senso, c’è anche un ritorno in termini di reputazione, poiché l’etica aziendale produce valore sia per l’impresa che per la collettività.
È questa la direzione a cui, come Confindustria, dobbiamo guardare per una società sempre più aperta e inclusiva. Abbiamo il compito di sostenere le imprese nella loro naturale capacità di adattamento e di estendere e accelerare il processo di trasformazione attraverso strumenti corretti, in termini di analisi e di formazione.
La domanda che ogni mattina si fanno gli imprenditori italiani quando entrano in fabbrica è: come sarà il mio Paese tra qualche anno?