Un passo indietro, al 2011. Nel libro “Gli imprenditori – Il valore dei fatti”, scrivevo con Guido Corbetta: “Nel 2020 ci saranno ancora gli imprenditori in Italia? La domanda è ovviamente retorica, perché il nostro sistema economico avrà sempre bisogno di un incessante processo di creazione di nuove imprese e di sviluppo di micro, piccole, medie e anche grandi imprese, guidate da una o più persone capaci di convivere con i rischi connessi all’esercizio dell’innovazione”.
Ed eccoci qua: il 2020, annus horribilis in lungo e in largo, è finito. Senza girarci troppo intorno: che ne è degli imprenditori? Che ci siano e che stiano lottando nel mare in tempesta, sotto il vessillo della resilienza, è fuori di dubbio. Che il loro ruolo non compaia tra le priorità della politica, è quasi certo: nei progetti per la ripartenza, al momento, più Stato che impresa.
Ciò detto, val la pena ricordare che senza imprenditori capaci di innovare e pronti a rischiare non c’è crescita. In altre parole, senza animal spirits non si va da nessuna parte. A maggior ragione in Italia.
Le variabili che condizionano il futuro della classe imprenditoriale sono tante e non è questa la sede per dissertarne. Per non saper né leggere né scrivere, metto sul tavolo la vexata quaestio della legittimazione sociale dell’impresa. Lo faccio prendendo le distanze da valutazioni “polari” sul mestiere dell’imprenditore, tipicamente ideologizzate. Esempio numero uno: “quelli che portano i soldi all’estero, che campano di rendita, che sfruttano i dipendenti”. Esempio numero due: “quelli che se comandassero loro avremmo risolto tutti i problemi del Paese”.
Riconoscere il ruolo dell’impresa significa approfondirne la missione competitiva, indagarne i meccanismi di funzionamento, identificarla come un “luogo” dove si generano posti di lavoro (o si prova a difenderli).
Una evidenza dal particolare valore simbolico. Un paio di anni fa ho partecipato ad un convegno di Piccola Industria in cui il sindaco di Cittareale, paese vicino ad Amatrice, ha testimoniato l’importanza di un piccolo birrificio locale. Per un territorio di duecento abitanti, in un’area così disagiata, cinque posti di lavoro rappresentavano una specie di manna. Tornando a casa, ho fatto una pensata su come portare la manna al quadrato, puntando alla ventina di dipendenti. Lanciando nuovi prodotti? Aprendo nuovi punti di vendita? Investendo sull’e-commerce? Alleandosi? Di opzioni strategiche avrei potuto generarne decine ed ero certo che l’imprenditore ne avesse di ben più fondate delle mie, magari non dormendoci la notte, preoccupato dalla scarsità di risorse o dal timore delle reazioni dei concorrenti o da chissà che altro.
Il messaggio, però, deve essere chiaro: a domande di tale tenore non risponde il vuoto pneumatico dei tweet, dei post e dei like. Non risponde la panna montata che ricopre un giorno i banchi con le rotelle e il giorno dopo l’apertura degli impianti sciistici. Non rispondono i navigator, da tempo destinati a prendere il posto di Carneade. Rispondono gli imprenditori, con i fatti, sempre e comunque, lockdown compreso.
Concludendo e guardando avanti, cosa sosterrà le motivazioni degli imprenditori? La passione? L’ambizione? La ricerca di visibilità? La creazione di un futuro per la famiglia? Il senso di responsabilità? Chi può dirlo? Ma un dato è imprescindibile: quello dell’imprenditore è un mestiere sempre più difficile, rischioso e meritocratico, a maggior ragione da quando il vento dell’economia non soffia più a favore. L’Italia è cresciuta attorno a questo “mestiere” e non ne può fare a meno. Dovremmo ricordarcene più spesso.
Post scriptum
Il libro finiva citando Churchill (“Molti vedono l’impresa come una vacca da mungere, altri come un nemico da abbattere. Io la vedo per quella che è: un cavallo robusto che tira una carretta molto, molto pesante”) per poi commentare: “Con la crisi, il cavallo si è indebolito e la carretta si è ulteriormente appesantita. Per questo, oggi più che mai, gli imprenditori in Italia hanno bisogno dell’aiuto di tutti. Non lasciamoli soli”.
Trascorsi quasi dieci anni, che dire de “l’aiuto di tutti”? Che si stava meglio quando si stava peggio? Se si guarda all’inflazione di “vedute corte”, alla fertilità della burocrazia, all’affanno dei corpi intermedi, alla rigidità dei sistemi formativi, la risposta non è gran che entusiasmante. Una ragione in più per non mollare! Una ragione in più per avere quel “coraggio di cambiare” di cui gli imprenditori sono autorevoli testimoni.