La conoscenza delle lingue, in principal modo quella tedesca, sommata ad una voglia matta di macinare chilometri per fare capire oltreconfine come l’abbigliamento made in Italy fosse ancora al vertice della scala mondiale, a metà degli anni Novanta sono stati i punti di forza che hanno consentito alla Bruno Manetti – cinque milioni di euro di fatturato nel 2022 a fronte di 30 dipendenti – e al suo omonimo titolare di iniziare a far conoscere la propria maglieria più su larga scala. Uno scatto in avanti motivato soprattutto dalla necessità di cambiare pelle commerciale, dopo aver dovuto incassare parecchi no durante i primi viaggi in Europa alla ricerca di una rinnovata dimensione d’impresa. “Di schiaffi ne ho presi eccome all’inizio di questa storia – spiega Bruno Manetti (nella foto in alto) –. Andavo in zone di lingua tedesca e spesso mi dicevano di tornarmene in Italia con il mio campionario donna di una trentina di capi. La punta massima di non gradimento l’ho avuta in una trasferta a Brema, nel nord della Germania, quando il titolare fu fin troppo chiaro. Sarà stato Luana, il precedente nome dell’azienda di famiglia, oppure un’offerta di abbigliamento non adeguata ai loro gusti, sta di fatto che fui costretto a fare di nuovo rotta sulla Toscana per aggiustare il tiro. Così in un paio di settimane rifeci la collezione e mi presentai dagli stessi commercianti con un brand nuovo di zecca e con un nome, l’attuale Bruno Manetti che, finalmente, gli piaceva veramente molto”.
Di lì in avanti la traiettoria commerciale della Pmi di base a Montelupo Fiorentino, in provincia di Firenze, è salita verso obiettivi sempre più importanti e ora il marchio, per quanto ancora di nicchia, è apprezzato in varie zone del mondo. “Mi cominciarono a cercare in tanti, prima dalla Germania e in seguito da Stati Uniti, Svizzera, Russia, Belgio, successo che al momento ci garantisce una presenza costante in 300 boutique indipendenti, di avere corner in negozi di pregio, come anche un nostro punto vendita sull’isola di Sylt, l’ultra esclusiva Capri tedesca. E, dopo averne creati anche a Mosca e Tokyo, stiamo parlando con un cliente per metterne su uno in Corea del Sud”.
Il brand Bruno Manetti ha in questo modo grande visibilità in boutique di alto profilo e i suoi capi vengono molto spesso presentati accanto ai prodotti di griffe prestigiose, come quelli delle maison francesi. In genere, senza distinzione di provenienza geografica, questi punti vendita sono gestiti da persone di età medio-alta, sempre alla ricerca di maglieria non convenzionale e comunque in grado di garantire il massimo grado di qualità. “È stato un processo di crescita progressiva ma tangibile a cui abbiamo lavorato parecchio negli anni – conferma Manetti, amministratore unico dell’impresa di Montelupo Fiorentino –. Oltre a confermarci in Giappone, per noi sbocco commerciale di estremo interesse, nell’ultimo quinquennio i passi in avanti più sostanziali li abbiamo compiuti in altre zone dell’Asia, con Cina, Hong Kong, Taiwan a guidare i paesi in cui il nostro sviluppo è stato più marcato. Come dicevo in precedenza siamo già attivi negli Stati Uniti, ma credo che il radicamento del nostro marchio in Nord America sia sostanzialmente in fase ancora embrionale. Sono sicuro che nei prossimi anni si potrà fare molto di più per avvicinare ai capi che produciamo pure quel tipo di clientela”.
L’essere riuscito a sviluppare, in sinergia con un’industria tedesca del settore, un nuovo, particolare tipo di maglieria tramata-confezionata di estremo pregio – con la forma di una giacca, un blazer, una giacchina tipo Chanel o un cappotto, ma il confort e la vestibilità di una maglia – ha permesso all’azienda toscana di aumentare le proprie quote di mercato (l’export costituisce il 90% del fatturato) continuando a puntare sulla qualità delle materie prime. “Un nuovo modo di proporre un capo che ci sta dando grandi ritorni non solo in termini economici, ma pure d’immagine. Per creare, per esempio, una giacca per uomo che viene percepita da chi la veste come un maglione ci vuole un notevole know how, conoscenze di tecnica e modellistica sopra la media. E poi sono ovviamente decisive materie prime che siano di livello certificato. I filati li compriamo prevalentemente in Italia, ma vengono comunque dall’estero: le capre che ci forniscono il cachemire sono infatti cinesi, mentre la lana viene da pecore della Tasmania, in Australia”, chiarisce Manetti.
Di progetti, infine, nel quartier generale della Pmi toscana se ne continuano a fare più d’uno, anche se la situazione contingente ha consigliato di mettere in stand by il più importante. “L’idea era di aprire una decina di negozi a marchio Bruno Manetti, ma Covid-19 e la guerra in Ucraina hanno di fatto stoppato gli entusiasmi. Sono cose che non si possono portare avanti a cuor leggero e senza pensare alle possibili ricadute, soprattutto quando si è ancora piccoli come noi. Abbiamo bisogno, insomma, di farci vedere di più in giro, di diventare maggiormente popolari. Parallelamente stiamo provando ad avviare una joint venture con un produttore mongolo di cachemire con cui abbiamo parlato, qui da noi, ai primi di giugno”, conclude Bruno Manetti.