
Dagli anni ‘80 del XX secolo, nei principali paesi avanzati è molto cresciuta la sperequazione dei redditi e la loro concentrazione nelle mani di pochi, a discapito di moltissimi i cui redditi reali, nel migliore dei casi, sono rimasti costanti. Approfondire lo studio della disuguaglianza e delle sue determinanti appare rilevante per almeno due ragioni, oltre quelle di equità e giustizia sociale (fairness): i) comprendere i processi alla base dei divari reddituali per valutarli anche in termini di efficienza economica; ii) riflettere sulle conseguenze su altri obiettivi ‘sociali’, in primis la crescita economica.
Diversamente dal passato, oggi l’attenzione degli studiosi è rivolta più che alla distribuzione funzionale del reddito (ovvero la sua ripartizione tra reddito da lavoro e da capitale) alla distribuzione dei redditi delle persone (o dei loro nuclei familiari).
Una delle ragioni è che il forte aumento della disuguaglianza “all’interno del lavoro” – con i fenomeni dei working poor e working super-rich – non si coglie con la distribuzione funzionale, che rileva il potere ‘medio’ di capitalisti e lavoratori ma non cosa accade all’interno dei due gruppi.
Una delle principali chiavi di lettura delle dinamiche in atto si riferisce proprio alle crescenti diversità tra lavoratori su varie dimensioni: nelle skill possedute; nell’esposizione alle ondate tecnologiche o alle importazioni da paesi a più basso costo del lavoro; nei settori (e anche nelle imprese) di occupazione; nel tipo di contratto, standard o atipico.
Guardare ai molteplici meccanismi che determinano la disuguaglianza permette anche di riflettere sulla possibilità che essa sia un problema non solo dal punto di vista della giustizia sociale. In apertura del suo libro Capitale e Ideologia (La nave di Teseo, 2020) Piketty scrive: “ogni epoca produce (…) un insieme di narrative e ideologie contraddittorie finalizzate a giustificare la disuguaglianza”. L’ideologia che giustifica la disuguaglianza contemporanea sarebbe quella che egli chiama l’ideologia “proprietarista e meritocratica”, il cui scopo principale è giustificare i ricchi.
Gli argomenti di questa ideologia sarebbero essenzialmente due. Il primo riguarda il merito e rimanda alla fairness: i ricchi meritano i loro redditi elevati e le loro ricchezze perché sono l’esito di una gara ‘equa’, cioè aperta e svolta in condizioni di uguali opportunità. Il secondo si riferisce ai benefici in termini di aumento di reddito che tutti trarrebbero dalla concentrazione dei redditi nella parte più alta della distribuzione. La metafora più frequente è quella del trickle-down cioè dello sgocciolamento verso il basso dei redditi crescenti dei più ricchi. Il fondamento teorico del trickle-down non è chiaro e forse non esiste e le verifiche empiriche non spingono a credere alla forza di questo effetto.
Una tesi, forse compatibile con il trickle-down, ma più agevole da comprendere e valutare, è quella secondo cui vi sarebbe una relazione positiva tra disuguaglianza e crescita economica, cosicché la disuguaglianza di oggi permetterebbe a tutti di stare meglio domani.
Quest’idea viene sostenuta indicando diversi meccanismi, ne citiamo due. Il primo è l’effetto di incentivo al lavoro e all’accumulazione di capitale umano che avrebbe la disuguaglianza nei redditi da lavoro. Il secondo, di natura macroeconomica, fa riferimento alla maggiore formazione di risparmio che si tradurrebbe in maggiori investimenti. Entrambi sono discutibili: il primo perché una quota rilevante delle disuguaglianze nei redditi da lavoro non dipende dal capitale umano e dall’impegno lavorativo, ma dal caso o da altri fattori assai poco meritocratici come, ad esempio, il “capitale relazionale” spesso collegato alle origini familiari; il secondo perché la trasformazione dei risparmi in investimenti è tutt’altro che automatica e, anzi, la disuguaglianza può creare problemi di domanda aggregata, limitando i consumi complessivi.
In realtà, sono stati indicati vari meccanismi per i quali la disuguaglianza può nuocere alla crescita, tra gli altri: le tensioni sociali che può provocare e, nella sfera della produzione, il venire meno di comportamenti cooperativi con conseguenze sulla produttività del lavoro. Numerosi studi empirici sembrano confermare che la relazione tra disuguaglianza e crescita oggi è di segno negativo. Inoltre, se la disuguaglianza nei redditi è conseguenza anche di disuguaglianza nelle opportunità (gran parte delle quali sono connesse alle origini familiari, ma riguardano anche la facilità di ingresso nei mercati) il suo effetto negativo sulla crescita sembra rafforzarsi. Si può quindi affermare che la disuguaglianza non meritocratica, unfair, è particolarmente avversa alla crescita.
Se conta il tipo di disuguaglianza che si forma nei mercati, le politiche di contrasto non possono essere soltanto redistributive; esse dovrebbero incidere sul funzionamento dei mercati, essere, cioè, ‘predistributive’. Del resto, le politiche predistributive sono anche quelle che possono disinnescare meccanismi che producono congiuntamente più disuguaglianza e meno crescita, come quelle di tolleranza dei monopoli e di non adeguata libertà di accesso nei mercati.
Preoccuparsi delle disuguaglianze – e, soprattutto di alcuni dei meccanismi che le generano – vuole dunque dire preoccuparsi contemporaneamente di tutelare la fairness e favorire la crescita e l’efficienza, intesa come ampliamento della produzione. Ma la disuguaglianza può preoccupare anche per le crescenti evidenze delle sue conseguenze sull’ambiente (maggiori emissioni di gas serra) e sul funzionamento della democrazia (fenomeni di unequal voice).
E questa considerazione porta alla domanda conclusiva che lasciamo senza risposta: se la disuguaglianza, quella contemporanea, crea questi problemi cosa impedisce di adottare politiche che sono al tempo stesso favorevoli a una disuguaglianza fair e alla crescita economica?
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Nota sugli autori

MAURIZIO FRANZINI
Maurizio Franzini, già professore ordinario di Politica economica alla Sapienza Università di Roma, insegna Economics of Institutions presso lo stesso ateneo. Dirige la rivista online Menabò di Etica e Economia, è responsabile scientifico del programma VisitINPS presso l’Inps. In anni recenti è stato presidente facente funzione dell’Istat tra il 2018 e il 2019; membro del Consiglio dell’Istat (2015-2019); direttore del Centro interuniversitario di ricerca E. Tarantelli (2015-2019), nonché coordinatore della Scuola di dottorato in economia della Sapienza fino al 2019.

MICHELE RAITANO
Michele Raitano è professore ordinario di Politica economica presso il Dipartimento di economia e diritto della Sapienza Università di Roma, che dirige, ed è presidente del corso di laurea magistrale in Economia politica. Come esperto indipendente, è membro dell’European Social Policy Network della Commissione Europea. I suoi principali interessi di ricerca riguardano la diseguaglianza economica, la mobilità sociale, il mercato del lavoro e i sistemi di welfare e pensionistici, temi sui quali è autore di numerose pubblicazioni nazionali e internazionali.