Con il progressivo invecchiamento della popolazione, il settore sociosanitario assume un ruolo sempre più centrale nei sistemi economici dei paesi più avanzati, non solo in termini di servizi prodotti per soddisfare una domanda crescente ma anche in termini di occupazione. A livello europeo, il settore sociosanitario rappresenta già oggi una parte significativa del mercato del lavoro. In base ai dati disponibili per i confronti internazionali, il 10,7% dell’occupazione totale nell’Unione europea era impiegata in questo settore nel 2021. Tuttavia, vi sono significative differenze tra i paesi: i paesi scandinavi, come Danimarca e Svezia, hanno una percentuale molto più elevata di occupati nel settore sociosanitario, con rispettivamente il 18,2% e il 19,9%, rispetto a paesi dell’Europa meridionale come l’Italia e la Spagna, che registrano valori significativamente inferiori (in particolare, l’Italia si attesta leggermente al di sotto della media europea con l’8%).
Per quanto interessato da importanti innovazioni tecnologiche, il settore è “labour intensive” e la qualità del lavoro influisce direttamente sulla qualità dei servizi e sui risultati in termini di salute. Le figure professionali principali sulle quali abbiamo a disposizione rilevazioni statistiche sono i medici e gli infermieri. Il numero di medici e infermieri è aumentato in molti paesi europei tra il 2011 e il 2021. Tuttavia, l’Italia presenta uno dei rapporti più bassi tra infermieri e medici a livello europeo, con 1,5 infermieri per medico, rispetto a una media europea di 2,2.
La mancanza di infermieri in Italia è particolarmente critica e rappresenta un ostacolo significativo alla transizione verso un sistema sanitario più orientato alle cure territoriali. Questo problema è aggravato dalla disomogeneità territoriale: nel 2021, mentre la Provincia Autonoma di Bolzano e il Friuli registravano rispettivamente 6,4 e 6,1 infermieri ogni 1.000 abitanti, regioni come la Puglia e la Calabria ne avevano soltanto 3,9 e 3,8. La mancanza di infermieri segnala la necessità di figure professionali maggiormente orientate all’assistenza. L’invecchiamento della popolazione sta infatti aumentando ulteriormente la pressione su un sistema già in difficoltà per quanto riguarda la domanda di assistenza a lungo termine e di operatori sociosanitari. Nel 2021, in media, vi erano 5,7 operatori di long term care ogni 100 persone con più di 65 anni, con variazioni significative tra i diversi paesi europei. La Norvegia, ad esempio, registrava 12 operatori ogni 100 anziani, mentre il Portogallo ne aveva soltanto 0,8. Tutti questi dati sottolineano la necessità di una programmazione più efficace del personale sociosanitario per conciliare la domanda di figure professionali con l’offerta.
Per quanto poco esplorato, il mismatch sul mercato del lavoro sanitario ha diverse spiegazioni. I fattori che giocano un ruolo fondamentale sono almeno tre: le retribuzioni tabellari, le possibili integrazioni con attività libero-professionali e i rischi di contenzioso legale. I giovani diplomati che devono scegliere un percorso formativo o i giovani medici che devono scegliere il percorso di specializzazione sono disincentivati nella scelta dei percorsi dove tutte queste problematiche sono accentuate.
Per quanto riguarda le retribuzioni tabellari, stando ai dati Ocse, le retribuzioni in termini assoluti di medici specialisti e di infermieri in Italia sono al di sotto della media europea.
Queste differenze contribuiscono a spiegare (ma non completamente) il fenomeno della migrazione del personale. È vero, infatti, che sempre più professionisti sanitari italiani decidono di non praticare in Italia: nel 2021, circa 13mila medici e oltre 5mila infermieri formati in Italia lavoravano all’estero, in particolare in Svizzera e nel Regno Unito. Tuttavia, rapportando le retribuzioni al livello salariale medio nei singoli Paesi, si nota come lo stipendio dei medici specialisti sia uniformemente maggiore della retribuzione media del complesso dei lavoratori (2,3 volte tanto in Italia), mentre quello degli infermieri si aggira intorno al valore medio (un rapporto di 0,9 in Italia).
Le retribuzioni tabellari sono solo però una parte della remunerazione dei professionisti. Le attività libero-professionali consentono infatti ai professionisti sanitari di integrare il loro stipendio, ma esistono differenze profonde tra medici e infermieri e tra medici con differenti specializzazioni. Sebbene si sia discusso di possibili conflitti di interesse nell’erogazione dei servizi tra pubblico e privato, sono molti i medici a sfruttare questa possibilità (circa il 40% nel 2021). Alla base di questa decisione, secondo un’indagine del sindacato Anaao Assomed, vi sono condizioni lavorative insoddisfacenti e difficoltà a gestire la vita privata. Retribuzioni maggiori e avanzamenti di carriera sono quindi le richieste dei medici impiegati nel settore pubblico. La possibilità di svolgere attività libero-professionali diventa così determinante e influenza direttamente le scelte delle specializzazioni dei neolaureati, contribuendo a una carenza di offerta per figure specifiche.
Infine, la questione della sicurezza delle cure e della responsabilità medica sono frequente oggetto di discussione. La struttura dell’attuale normativa in materia fa sì che molti medici agiscano con maggiore zelo di quanto necessario, per evitare di incorrere in procedimenti giudiziari, gonfiando la spesa. D’altra parte, i professionisti stessi sono esposti ad aggressioni verbali e fisiche da parte dei pazienti, soprattutto in alcuni reparti come, per esempio, l’emergenza e urgenza. Questo contribuisce chiaramente ad una fuga da questi reparti dei lavoratori e ad una contrazione ulteriore dell’offerta di lavoro.
di Rossana Arcano, Ilaria Maroccia e Gilberto Turati
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Nota sugli autori
Gilberto Turati è professore ordinario di Scienza delle finanze presso la facoltà di Economia dell’Università Cattolica del Sacro Cuore. È vice direttore dell’Osservatorio sui Conti Pubblici Italiani dell’Università Cattolica del Sacro Cuore e presidente della Società Italiana di Economia Pubblica (Siep).
Ilaria Maroccia è junior economist presso l’Osservatorio sui Conti Pubblici Italiani dell’Università Cattolica. È PhD candidate nell’European PhD in Socioeconomic and Statistical Studies dell’Università di Roma La Sapienza, dopo aver conseguito una doppia magistrale in Economia e finanza presso la Luiss Guido Carli di Roma e in Economic Governance and Public Policy in Europe presso l’Université Libre de Bruxelles.
Rossana Arcano è junior economist presso l’Osservatorio sui Conti Pubblici Italiani dell’Università Cattolica. È PhD candidate in Economics, Management and Statistics presso l’Università degli Studi di Messina, dopo aver conseguito con lode la laurea magistrale in Banking and finance all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano. Frequenta il Master di II livello in Analisi, prevenzione e contrasto della criminalità e della corruzione (Antimafia e Anticorruzione, APC) presso l’Università di Pisa, Napoli Federico II, Torino e Palermo.