Le scarpe rosse che ogni 25 novembre punteggiano le piazze italiane ci ricordano che la violenza sulle donne è una piaga non ancora sconfitta. Furono utilizzate per la prima volta da Elina Chauvet, artista messicana che nel 2009 realizzò un’installazione pubblica nella città di Juarez per sensibilizzare la comunità locale su questo problema. Un’iniziativa fortemente simbolica, che negli anni si è diffusa e oggi contraddistingue anche plasticamente la “Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne” istituita dall’Assemblea delle Nazioni Unite nel 1999.
Come ricorda la Convenzione di Istanbul del 2011, il primo strumento internazionale giuridicamente vincolante per creare un quadro normativo a tutela delle donne, il fenomeno della violenza di genere rappresenta una manifestazione di rapporti di forza storicamente diseguali fra i sessi. I fattori che hanno reso possibile e alimentano questo disequilibrio sono tanti e differenti, ma senza dubbio uno dei più importanti è la mancanza di un’autosufficienza economica da parte delle donne. Ecco perché il lavoro femminile costituisce uno degli strumenti più preziosi per combattere abusi e prevaricazioni ed ecco perché occorre impegnarsi ancora di più per creare le condizioni che favoriscano l’accesso – e soprattutto la permanenza – delle donne nel mondo del lavoro.
L’Italia, come è noto, ha un tasso di occupazione femminile relativamente basso. Nonostante nel decennio dal 2009 al 2019 la percentuale sia cresciuta, passando dal 46,2% al 50,1%, il dato resta inferiore di 18 punti rispetto a quello degli uomini (68,0%), molto lontano anche dalla media europea (62,9%). Esistono inoltre differenze generazionali e territoriali. Le giovani donne che lavorano (25-34 anni) sono mediamente di più al Nord (65,7%), mentre al Sud il tasso di occupazione per questa fascia d’età scende al 32,7% e una differenza analoga si osserva anche nella fascia d’età compresa fra 45 e 54 anni, dove i due valori sono, rispettivamente del 73,6% al Nord e del 40,9% al Sud.
Tra i fattori che ostacolano la crescita del tasso di occupazione femminile va considerato l’insieme delle cure familiari e domestiche che, ancora oggi, sono prevalentemente a carico delle donne. Lo si desume dal maggiore uso che queste ultime fanno dei congedi parentali: fra il 2015 e il 2019, l’80% delle richieste è arrivato da donne – benché nello stesso intervallo di tempo la percentuale degli uomini che ha utilizzato lo strumento sia passata dal 15% al 21%.
Un discorso analogo si potrebbe fare sulla maternità. Il costo sul mercato del lavoro della nascita di un figlio, la cosiddetta child penalty, pesa diversamente sul percorso professionale e la percentuale di donne con figli con contratti part-time è quasi tripla rispetto a quelle senza, con effetti sulla carriera che durano anche ad anni di distanza dalla nascita dei figli. Le cause dell’inverno demografico che l’Italia attraversa e di cui molto si parla (si veda, per esempio, il numero della Rivista di Politica Economica dedicato all’argomento, ndr) – vanno rintracciate anche qui, in una condizione oggettiva che troppo spesso mette in contrapposizione maternità e percorsi professionali.
È per questo motivo che occorre rafforzare l’insieme dei servizi di cura per la prima infanzia che, pur essendo cresciuti negli ultimi anni, restano lontani dal target europeo dei 33 posti ogni cento bambini e presentano, ancora una volta, ampi divari interni, con un Centro-Nord che riesce a garantire 32 posti e un Mezzogiorno che ne offre mediamente 13,5 e soltanto in meno della metà dei comuni. Un decisivo impulso potrà venire dall’attuazione del Piano nazionale di ripresa e resilienza, che destina 4,6 miliardi al Piano asilo nido.
Le imprese, dal canto loro, negli anni si sono sempre più rese parte attiva nelle politiche per la famiglia, realizzando piani di welfare aziendale. Servizi costruiti sulla base delle necessità dei dipendenti e che hanno finito per rafforzare il senso di comunità delle imprese, specialmente nelle Pmi. In generale è la flessibilità organizzativa ad essere apprezzata – con permessi, orari di entrata e uscita flessibili, banca ore – e circa il 40% dei contratti aziendali, adottati da oltre un terzo delle imprese del Sistema Confindustria, prevede strumenti di questo tipo.
A ciò si aggiunge la formula del lavoro da remoto, che con la pandemia ha conosciuto una rapida e ampia diffusione. Il 35% delle imprese associate a Confindustria dichiara che continuerà ad adottarlo. Si tratta di un fatto positivo, una possibilità in più che i genitori dovranno saper dosare affinché non si traduca in un aggravio del carico di lavoro complessivo – fra professionale e domestico – e in un più lento avanzamento di carriera. Un tema, questo, che chiama in causa le responsabilità di tutti i componenti familiari e che richiede particolare sensibilità da parte dei datori di lavoro.
Come si vede, la questione di come aumentare la presenza delle donne nel mondo del lavoro è complessa e ricca di sfumature. A chi scrive non sfugge che un buon contributo al raggiungimento dell’obiettivo potrebbe provenire anche da scelte formative orientate verso professioni che assicurano maggiori possibilità di inserimento e di retribuzione.
In occasione del B20 guidato da Confindustria che si è svolto lo scorso anno, uno degli spazi di discussione è stato affidato alla Special Initiative on Women Empowerment e proprio in quel contesto è stato ribadito come sostenere le giovani nella scelta di studi tecnico-scientifici rappresenti uno strumento per combattere gli stereotipi di genere. Il tema è ben presente sia a livello europeo – si pensi al “Piano d’azione per l’istruzione digitale 2021-2027” – che a livello italiano, con la “Strategia nazionale per la Parità di genere 2021-2026” lanciata durante il governo Draghi e alla quale Confindustria ha collaborato. Sono poi tanti e diffusi sul territorio i progetti che in questi anni sono germogliati fra le nostre associazioni di Sistema con lo scopo di promuovere la parità di genere nelle discipline scientifiche, con borse di studio, spazi ad hoc realizzati in collaborazione fra aziende e scuole, premi e molto altro.
In Italia gli esempi di successo a cui guardare non mancano. Il pensiero corre a Samantha Cristoforetti, prima europea a guidare la Stazione Spaziale Internazionale. Una carriera che non deve intimorire per la sua eccezionalità, ma infondere coraggio alle tante giovani e giovanissime che cominciano a pensare al proprio domani. La fiducia in sé stesse che servirà loro nella vita come donne ha radici lontane e va costruita con cura.