Nelle ultime settimane Confindustria ha raccomandato con forza al Governo di uscire dallo stallo e di reagire ai segnali di “crescita zero”. Il suggerimento è stato raccolto? Quale è il suo giudizio sul Def?
Il Def ammette con onestà intellettuale che quanto previsto da Confindustria attraverso il suo Centro studi è purtroppo vero: il Paese non cresce o cresce troppo poco per poter centrare gli obiettivi che si deve dare, primo fra tutti aumentare l’occupazione e il lavoro. Indicare con realismo che il prodotto interno lordo è stazionario è solo il presupposto per passare quanto più efficacemente possibile ai rimedi.
Pensioni e reddito di cittadinanza sono due punti nevralgici del Def. C’è uno sbilanciamento rispetto alle risorse destinate allo sviluppo?
Pensioni e reddito sono i pilastri costitutivi del contratto di governo e soddisfano l’esigenza per i due partiti della maggioranza di dare risposte ai rispettivi elettori. Naturalmente, però, un governo risponde a tutti gli italiani e deve farsi carico del miglioramento complessivo delle loro condizioni di vita a partire dall’aspettativa dei giovani di trovare un lavoro serio e dignitoso.
Per questo occorre creare le condizioni per il rilancio degli investimenti pubblici e privati e per l’apertura dei tanti cantieri che in tutto il Paese – al Nord, al Centro e al Sud –attendono di partire con risorse già stanziate e quindi senza gravare sui conti pubblici.
A quali misure si dovrebbe lavorare per favorire l’inclusione sociale?
Il più potente fattore d’inclusione sociale è il lavoro. È su questo che dobbiamo puntare alleggerendo il debito e attivando la crescita come abbiamo espressamente ricordato nel documento di Verona davanti a settemila nostri imprenditori dopo una lunga fase di ascolto realizzata attraverso numerosi incontri sul territorio.
Scuola e formazione. Considerando le sfide cui saranno chiamate le nuove generazioni, c’è sufficiente attenzione a questo tema? Accanto all’alternanza scuola-lavoro, quali sono le proposte di Confindustria?
Il capitale umano è il bene più prezioso per un Paese, la sua economia, le sue imprese. Per questo diciamo che occorre migliorare la formazione dentro e fuori le fabbriche a beneficio di giovani e meno giovani alle prese con tecnologie sempre più performanti. Un’attenzione particolare va allo sviluppo degli Its, gli istituti tecnici, che in Italia sfornano 8mila diplomati l’anno contro gli 800mila della Germania. C’è una distanza enorme da colmare e abbiamo sempre meno tempo per farlo. Confindustria ne è consapevole e farà tutto quanto è nelle sue possibilità per contribuire alla soluzione del problema.
Ha richiamato più volte il tema delle infrastrutture. Dove trovare le risorse per una nuova stagione di investimenti pubblici?
La maggior parte delle opere bloccate sono destinatarie di fondi che giacciono senza essere spesi. Bisogna partire da questi in modo da non pesare sul deficit, e quindi sul debito, dal momento che non possiamo permetterci un ulteriore aggravio dei conti pubblici. Le infrastrutture sono fondamentali perché incrementano il capitale fisso di un Paese, consentendo di scommettere sul suo futuro e perché sono rappresentative di una società aperta e inclusiva. Le infrastrutture collegano centri a periferie, città a città, paesi tra di loro, e affermano la centralità dell’Italia tra Europa e Mediterraneo.
Con Cgil, Cisl e Uil, Confindustria ha firmato un appello per l’Europa. Quali sono le questioni più urgenti che la prossima Commissione dovrebbe affrontare? E di quali istanze vi siete fatti portavoce in BusinessEurope?
La prima cosa da stabilire e da condividere è una politica dei fini che renda chiaro e visibile l’indirizzo che si vorrà dare all’Europa. Politica dei fini vuol dire individuare gli obiettivi che si vogliono raggiungere e solo dopo stabilire gli strumenti e le risorse che s’intendono attivare.
Si tratta di capovolgere un paradigma di pensiero e azione che ha fatto dei saldi di bilancio un tabù a prescindere dagli effetti che si determinano sull’economia reale. Ecco, noi adesso dobbiamo decidere se produrre o meno uno sforzo riformista per fare finalmente dell’Europa il luogo migliore al mondo per i giovani, il lavoro, le imprese e le infrastrutture modificando il patto di stabilità e crescita in patto di crescita e stabilità. Con l’obiettivo, immutato rispetto ai padri fondatori, di garantire a tutti i cittadini pace, protezione e prosperità.
Il documento rappresenta inoltre un’evoluzione del Patto della Fabbrica. Quali sono le principali novità rispetto alla precedente intesa?
Il Patto della Fabbrica mette al centro dell’attenzione il lavoro, quello giovanile ma non solo, perché è l’unico modo per ridurre i divari, combattere la povertà e costruire una società più giusta. Per questo proponiamo di farlo evolvere in un vero e proprio Patto per il Lavoro indicando esplicitamente quale deve essere il punto di arrivo, il fine ultimo, delle politiche che dobbiamo mettere in atto come Paese e come Unione europea.
In questo l’Italia potrebbe svolgere un ruolo fondamentale indicando la strada che si può percorrere per giungere alla meta ed è quello che Confindustria sta facendo dialogando con BusinessEurope e le diverse associazioni imprenditoriali dell’Unione, in particolare con la francese Medef e la tedesca Bdi.