
Negli ultimi anni l’innovazione tecnologica ha inciso profondamente sulla nostra vita, cambiando la società, la politica e naturalmente anche l’economia. Il termine tecnofinanza, o più spesso fintech, indica le innovazioni finanziarie introdotte con l’innovazione tecnologica. Nuovi prodotti, nuovi modelli di business, nuovi operatori di mercato. Nuove modalità di interazione. Si pensa comunemente ai bitcoin, alle criptovalute. Ma il fintech è molto di più. E significa opportunità inedite, ma anche sfide inedite, perché la sua cifra di fondo è un diverso e più complesso rapporto con le istituzioni nazionali. E cioè il contesto in cui si è sviluppata la finanza tradizionale.
Uno strumento finanziario è essenzialmente una promessa. Un asset non fisico il cui valore dipende da una serie di obblighi e condizioni definiti in un contratto: o in altre parole, la promessa di dare qualcosa a qualcuno nell’ipotesi in cui si materializzino alcuni specifici eventi. Eventi futuri, e dunque, incerti. Un mutuo, per esempio, è la promessa di pagare a una banca una certa somma ogni mese. Così come un’azione è la promessa di versare al suo titolare una certa quota dei profitti di una certa azienda. In questo senso, l’intero sistema finanziario non è che una specie di mercato di promesse. Un mercato basato sulla fiducia. La fiducia di ogni parte nella controparte. Per questo la finanza è propria dei paesi più sviluppati: perché richiede la rule of law. Richiede un solido sistema giuridico e giudiziario. Un mutuo non sarebbe possibile senza la garanzia di un’ipoteca e, più esattamente, della sua esecuzione in caso di inadempienza, di mancato pagamento delle rate.
Il problema è che anche nei paesi più sviluppati i governi a volte disattendono le proprie promesse, perché hanno una pluralità di obiettivi e una pluralità di interessi da mediare e bilanciare. Si è visto in tempo di crisi estreme, come con il Covid-19, con il prolungamento per esempio de jure dei contratti di locazione, ma anche nel 2009, con le tante moratorie per i debitori e i tanti interventi di salvataggio: ma è un problema ormai strutturale. I governi oggi hanno molti ruoli, in molti settori, e non sempre sono arbitri imparziali. Ed è qui che il fintech si rivela un’opportunità: perché ha mezzi alternativi di garanzia e attuazione delle promesse.
Il mezzo che apre più scenari è senza dubbio quello delle blockchain: dei database condivisi che consentono di registrare, validare e monitorare transazioni relative ad asset sia materiali, come un’auto o un terreno, sia immateriali, come un brevetto. Nelle blockchain il controllo non è centralizzato, ma affidato a milioni di validatori, i cosiddetti miners. Sono gli stessi utenti, cioè, a farsi garanti delle promesse, incentivati a onorarle da una sorta di compenso. Le gas fees. E questo abbatte l’alea e il costo delle transazioni.
Un esempio sono i protocolli di lending come Aave, con cui chiunque ha la possibilità di ottenere un prestito garantito da un asset a rischio, come dei bitcoin, di cui Aave, in modo automatico e quindi non discrezionale, valuta il valore. In più, e in modo altrettanto automatico, Aave interviene in caso di insolvenza, impossessandosi dell’asset offerto a garanzia. Esattamente come una banca: solo che è un bot. Un pezzo di codice. Ed è quindi indipendente dall’autorità dei governi. E dalla loro volubilità.
Le questioni ancora da affrontare sono molte, ovviamente. E la prima è quella della regolamentazione. Per il fintech aggirare i confini nazionali, e quindi le norme, che al momento sono in larga parte norme nazionali, è facile. Tanto più che nelle blockchain molte transazioni sono transazioni tra wallets, e cioè delle specie di conti cifrati che non sono immediatamente riconducibili ai titolari.
Il tentativo più noto è stato quello della Cina, che nel 2017 ha approvato una serie di misure restrittive sulle criptovalute. E non ha funzionato. Si è avuto un tipico shock da regolamentazione, per cui in pochi mesi il volume degli scambi denominati in RMB, la valuta cinese, è crollato quasi a zero. Ma non perché gli investitori avessero abbandonato le criptovalute: hanno investito nei paesi limitrofi, come la Corea e il Giappone, o più semplicemente, sono ricorsi a software VPN per accedere ai servizi vietati.
Intanto, però, alcuni dei principali attori fintech sono già falliti. Da FTX, specializzata in cripto-trading, a Celsius Network, specializzata in cripto-credito. A riprova che l’auto-regolamentazione non è sufficiente. Eppure, maggiore trasparenza e maggiori tutele sono nell’interesse del fintech stesso, che così attrarrebbe più risparmiatori e rassicurerebbe quanti associano le criptovalute ad attività illegali. A cui, secondo alcune stime, è destinato il 50% delle transazioni annue in bitcoin. Altre stime, certo, si fermano al 3%. Il fintech non implica necessariamente bitcoin o altre criptovalute. Ma lo scetticismo resta.
Così come resta la questione dell’efficienza del fintech. Le criptovalute sono scambiate contemporaneamente su diversi mercati e contro diverse altre valute. Posso acquistare bitcoin in dollari sull’americana Coinbase oppure in euro sull’europea Kraken o anche in ethereum su Binance. Cripto per cripto. Il risultato è che a differenza delle valute tradizionali, le criptovalute non hanno un solo prezzo, ma vari. Ed è un limite rilevante. Si è tentato di rimediare con le cosiddette stablecoins, che hanno un valore fisso rispetto a una valuta fiat e sono quindi un po’ un ibrido.
Ma anche qui, l’esperienza negativa di Terra-Luna, il cui valore era legato a una seconda criptovaluta attraverso un algoritmo, è la riprova di quanto la strada sia ancora lunga e accidentata. E senza un prezzo unico, non è possibile avere finanza derivata. Un contratto futures in bitcoin, per esempio: quale prezzo determina il valore del futures, se lo stesso asset ha più di un prezzo? Al momento si usano medie ponderate, ma ovviamente, non è abbastanza perché si crei un mercato dei derivati, che sono strumenti essenziali per qualsiasi strategia di riduzione del rischio. E cioè per gli investitori istituzionali. Ma va da sé che, date le potenzialità del fintech, si tratta di sfide su cui ha senso misurarsi.
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Nota sull’autore

NICOLA BORRI
Nicola Borri è ricercatore presso il Dipartimento di Economia e finanza della Luiss Guido Carli. Ha conseguito una laurea in economia politica presso l’Università Bocconi e un Ph.D. in Economics presso la Boston University.
La sua attività di ricerca si trova all’intersezione tra macroeconomia e finanza ed è stata pubblicata su riviste come Review of Asset Pricing Studies, Journal of Banking and Finance e Review of Economic Dynamics. È Associate editor per Economics Letters. Per contattarlo: [email protected] – Web: https://www.nicolaborri.com