Per capire come procede l’internazionalizzazione del made in Italy nel post pandemia non si può fare a meno di analizzare l’industria fieristica di casa nostra. Ed è anche da qui che passa lo sviluppo economico del Paese.
Questo il dato sostanziale che emerge dalla prima edizione de “L’Italia delle fiere internazionali”, rapporto ad ampio spettro sui cambiamenti in atto all’interno dell’ecosistema fieristico, realizzato dai centri studi di Fondazione Fiera Milano e Confindustria in collaborazione con CFI-Comitato Fiere Industria e presentato a Roma, presso la sede di Confindustria il 23 marzo.
Un lavoro economico-scientifico che per la prima volta è andato ad analizzare il legame tra l’economia di un paese e il suo sistema fieristico mettendo a confronto, oltre agli Stati Uniti, le quattro nazioni europee (Italia, Germania, Francia e Spagna) con maggiore inclinazione a dedicarsi alla promozione dei propri prodotti attraverso eventi fieristici.
Alla tavola rotonda dell’evento hanno partecipato Paolo Magri, vice presidente esecutivo di Ispi, Damiano Francovigh, consigliere d’ambasciata del ministero degli Affari esteri e della Cooperazione internazionale, Carlo Ferro, presidente dell’Agenzia Ice, Mauro Alfonso, amministratore delegato Simest, e Alberto Marenghi, vice presidente di Confindustria con delega a Organizzazione, sviluppo e marketing. A moderare il direttore del Tg1 Monica Maggioni (i partecipanti in ordine, da sinistra, nella foto in alto).
Le conclusioni sono state affidate al presidente di Confindustria Carlo Bonomi, che ha ricordato come le fiere siano “il cuore pulsante” dello sviluppo economico ma anche “il cuore che ha guardato molto al sociale” nel periodo della pandemia. “Gli spazi fieristici – ha sottolineato – sono stati ospedali, reparti di terapia intensiva, hub vaccinali, centri di accoglienza e fare queste cose in Italia sappiamo che non è così semplice”.
Fiere, la situazione prima e dopo la pandemia
La prima fase dello studio, che prende in analisi il periodo 2015-2019, sottolinea come in Italia, Germania, Francia e Spagna si siano svolte più della metà (54%) delle fiere internazionali con una occupazione dello spazio netto affittato del 76%.
Si evince anche che l’Italia può vantare il 23% delle superfici affittate, mentre la Germania, nostro principale competitor, è al 50%. Risulta poi estremamente chiaro quanto duramente la pandemia abbia colpito il settore delle fiere: rispetto al 2019, infatti, si stima che il fatturato a livello mondiale sia calato del 68% nel 2020 e del 59% nel 2021.
Un supporto per le filiere del made in Italy
In questo secondo capitolo vengono presi in esame gli aspetti legati all’internazionalizzazione, con focus su tutte quelle fiere che vedono una forte presenza di espositori esteri.
Analizzando i dati dei quattro paesi europei analizzati si nota che alcuni settori spiccano per internazionalità: tra questi il sistema Moda (84% di fiere con internazionalità forte), seguito da Comunicazione Ufficio, con all’interno le fiere di editoria (72%), industria (70%) e arredamento (68%). In Italia, in particolare, le fiere più internazionalizzate appartengono ai settori moda, arredamento, industria, salute ambiente, comunicazione ufficio e costruzioni.
Nel rapporto vengono pure quantificate le quote di mercato dell’Italia a livello mondiale in alcuni dei settori più forti e rappresentativi del made in Italy (arredamento, cosmetica, food e hospitality, meccanica, moda, trasporti). Nel settore moda, il nostro Paese può contare sul 23% dei 2,7 milioni di metri quadrati venduti a livello mondiale, mentre in quello della cosmetica, l’Italia vale il 13%.
Le fiere e l’export
A livello globale lo scambio internazionale dei beni ha subìto un netto rallentamento (-13,6% nel bimestre del primo lockdown aprile-maggio 2020 rispetto al mese di febbraio) all’indomani dell’inizio della pandemia. L’attività produttiva è poi ripartita nel terzo trimestre del 2020, supportata dalla scoperta e la conseguente somministrazione dei vaccini. Un trend che ha dato rinnovato impulso al commercio internazionale – tornato progressivamente ai valori pre Covid-19 – e capace di riagganciare i livelli degli anni precedenti, come chiarito dal Centro Studi Confindustria. Dati positivi che purtroppo, però, potrebbero essere messi in forse dalla guerra in Ucraina, grandissimo freno per la crescita mondiale nell’anno in corso.
Anche in Italia l’export è riuscito a tornare ai livelli pre-Covid, ovvero circa 516 miliardi di beni (il 32,6% del Pil), ma va anche tenuto conto che nel 2020 sono stati 126.275 gli operatori economici che hanno effettuato vendite di beni all’estero, mentre l’anno precedente erano 10.688 in più.
Nel nostro Paese è presente un ampio segmento di “micro esportatori”: 72.571 operatori che realizzano un fatturato molto limitato dalle esportazioni (fino a 75mila) e, allo stesso tempo, si nota come solo 4.276 operatori appartengano alle classi di fatturato esportato superiori a 15 milioni di euro (segmento che realizza il 71,2% dell’export italiano). In altre parole, si sono quindi rafforzate le aziende più grandi e consolidate sui mercati esteri, mentre quelle più fragili e piccole paiono averli abbandonati e non sono state sostituite da nuovi operatori (fonti Istat e Ice). Uno studio, quello Fondazione Fiera Milano e Confindustria, in cui si comprende anche il ruolo commerciale rivestito negli anni dalle fiere in favore delle Pmi: quando, infatti, queste ultime non hanno potuto più accedere ai mercati attraverso le fiere, i risultati non sono stati più altrettanto confortanti.
Le fiere e la trasformazione digitale
Se fino al 2018, mediamente, solo il 2% dei ricavi degli organizzatori (con punte del 4-5% per alcuni operatori) era ascrivibile al digitale, nel 2020, complice la chiusura forzata dei quartieri fieristici, sono cresciuti in maniera significativa i canali di vendita misti online e offline, come anche i canali di acquisto misti. E i grandi buyer hanno comprato in quantità significative sfruttando tutte le versioni.
Da un’indagine condotta da GRS Research & Strategy su 1.200 espositori e 6mila visitatori di 24 manifestazioni fieristiche italiane di livello internazionale emerge chiaramente, però, che i buyer hanno partecipato in modo ridotto alle fiere digitali: solo il 19% tra gli italiani rispetto al 30% di quelli esteri. Tutti loro hanno mostrato una soddisfazione medio-bassa per fattori, quali il mantenere le relazioni, capire le novità e le tendenze, contattare i fornitori abituali, cercare fornitori nuovi e fare ordini. Una soddisfazione complessiva che si è attestata tra il 30 e il 40%.
Il gradimento dei visitatori per le fiere in presenza prevale chiaramente su quelle online. La fiera vissuta di persona mantiene un appeal nettamente superiore (dal 72 all’87% degli interpellati) in quasi tutte le categorie analizzate nello studio: dalla possibilità di fare conoscenze casuali alla qualità del networking, dalla soddisfazione generale al senso di appartenenza alla community.
L’esperienza online è, invece, gradita quando si parla del rapporto valore-tempo, della qualità dei contenuti formativi, ma soprattutto (76%) quando in gioco entra il tema dei costi per la partecipazione ad una fiera.
Conclusioni
Il rapporto “L’Italia delle fiere internazionali” quindi chiarisce come le fiere non abbiano sostituti per quanto riguarda aspetti cruciali come le relazioni dirette, l’agire collettivo, la comprensione delle frontiere dell’innovazione e la rassicurazione sulle scelte di fornitura. Soprattutto per le Pmi, vera spina dorsale del sistema produttivo italiano, la fiera fisica continua ad interpretare un ruolo fondamentale, luogo rassicurante e formativo imprescindibile per la vita stessa delle aziende.