
I manager di piccola e media impresa (Pmi) e grande impresa (Gi) hanno davvero competenze diverse? Il contesto, di Pmi o Gi nel quale il manager si trova a operare, richiede una caratterizzazione delle competenze? E se delle differenze esistono, cosa occorre allora a un manager per passare da una Pmi a una Gi e viceversa?
Sono queste alcune fra le domande che animano il dibattito odierno sulle competenze manageriali, condotto a livello sia accademico sia associativo e imprenditoriale.
E sono queste le domande che hanno ispirato la ricerca: “Manager oggi: opportunità di sviluppo professionale e occupazionale nel modello di relazione piccole – media impresa e grande impresa”, progetto commissionato da Federmanager Varese, con il sostegno di 4.Manager e dell’Unione Industriali di Varese, al Centro di Ricerca sullo Strategic Management e il Family Business della LIUC Business School, con il preciso intento di accrescere le opportunità di sviluppo professionale dei manager, promuovendone la mobilità fra imprese di differente dimensione e/o migliorando la natura delle relazioni fra i medesimi, se stabilmente impiegati in Pmi oppure in Grande impresa. Il tutto accompagnato dalla volontà di attivare la leva della formazione, prezioso strumento disponibile a livello associativo, in collaborazione con le istituzioni accademiche, fra le quali LIUC – Università Cattaneo, da sempre attenta a cogliere le esigenze formative delle imprese.
Alcune risposte, pur preliminari, sono state possibili grazie a una survey alla quale hanno partecipato un’ottantina di manager, associati Federmanager, che ha evidenziato le differenze fra i livelli di competenze dei manager che lavorano in Pmi rispetto a quelli di grandi imprese; e a undici interviste individuali, rivolte a sei manager e a cinque imprenditori, che hanno per così dire “colorato” queste competenze, caratterizzandole per come si manifestano in contesti aziendali di dimensioni differenti.
Le competenze oggetto di indagine si riferiscono alle tre tipologie ampiamente riconosciute come necessarie per essere un buon manager – a maggior ragione in questo periodo di crisi senza precedenti – cioè quelle tecniche, qualificate come hard; quelle cognitive e quelle relazionali, rientranti entrambe nell’area soft.
Conoscenza e uso delle tecniche di Gestione della produzione, di amministrazione, Finanza e controllo, di Gestione delle risorse umane sono il tipico esempio di possesso di competenze hard; ottimismo, autocontrollo, orientamento ai risultati, adattabilità a un ambiente competitivo sempre più mutevole rappresentano esempi di abilità cognitive; infine, network di contatti numerosi e articolati, empatia, capacità di creare e gestire team, anche multiculturali sono esempi di abilità relazionali.
La figura seguente permette di visualizzare i livelli di competenze dei manager rispondenti, tutte misurate in una scala fra 1 (livello minimo di conoscenza/uso) e 4 (ottima padronanza).
Si distinguono:
- i Fuoriclasse, manager di grande impresa con un livello medio di competenze più elevato in tutte le aree considerate;
- seguiti a ruota dai Poliedrici, manager di Pmi dotati di competenze tecniche particolarmente solide in certe aree, definibili come generaliste (amministrazione, finanza, controllo e project management, human resource management, qualità, sicurezza e ambiente), ma caratterizzati al tempo stesso da buone capacità cognitive e abilità relazionali;
- più distanti, gli Specialisti, manager ancora di Pmi anch’essi tecnicamente preparati, in aree più squisitamente tecniche (nello specifico, marketing & vendite; gestione della produzione e dell’innovazione), ma con profili cognitivi e relazionali più deboli;
- infine, i Mediani, manager di grande impresa con un livello medio di competenze più basso in tutte le aree considerate, più simili agli Specialisti che ai colleghi Fuoriclasse.

I QUATTRO PROFILI INDIVIDUATI DALLA RICERCA
Differenze allora, ma innegabilmente anche delle similitudini fra manager di Pmi e grandi imprese, il che rende i risultati difficili da interpretare. Solo le interviste, grazie a un approfondito confronto con i manager e gli imprenditori coinvolti, hanno consentito una migliore messa a fuoco.
Alla fine, non si tratta di manager di per sé più o meno tecnicamente preparati, più o meno adattabili, empatici e/o predisposti alle relazioni, ma è il contesto – piccolo o grande in cui essi si trovano a operare – che ne caratterizza il profilo.
E così, essere un buon tecnico in una Pmi è diverso che esserlo in una grande impresa. In quest’ultima ciascun manager deve conoscere profondamente il proprio ambito di specializzazione, coordinandosi tramite meccanismi appositamente progettati, con i colleghi a loro volta esperti di altre aree funzionali. Anche per i manager di Pmi la competenza tecnica deve essere profonda – forse meno ampia nell’ambito specifico – ma un manager deve essere in grado di comprendere il linguaggio anche delle altre funzioni in modo da poter interagire efficacemente con i relativi responsabili: in altre parole deve essere lui stesso interfunzionale.
Stesso schema per le competenze relazionali. All’unisono, tutti gli intervistati sono concordi nel ritenere che esse divengano sempre più importanti procedendo nella scala gerarchica sia di grande impresa che di Pmi. Tuttavia, ancora vi sono delle differenze di colore e dei trade-off da gestire.
Per i manager di Pmi la complessità delle relazioni è di fatto sicuramente minore perché il numero delle stesse è più contenuto; d’altra parte, le difficoltà crescono perché vengono inevitabilmente a crearsi rapporti più intimi, normalmente più stimolanti, ma che, se problematici, possono causare dei fenomeni di vera e propria idiosincrasia. Si pensi solo ad esempio a quanto possa diventare impegnativa la relazione con l’imprenditore-proprietario.
Per un manager di Pmi, e quindi per un manager di grande impresa che intenda passare a una Pmi, è dunque importante prestare attenzione alle relazioni interpersonali, dimostrando forti doti di empatia.
Per finire con le abilità cognitive, importanti in qualunque contesto odierno, ma per i manager delle Pmi fortemente richieste, con enfasi particolare sulla flessibilità e la pro-attività nella risoluzione dei problemi.
Ma allora, in sintesi, cosa occorre per passare da un’impresa all’altra o per creare e mantenere buone relazioni fra manager di Pmi e di grande impresa?
Le aziende più grandi sono portatrici di una cultura manageriale più ampia, hanno processi e procedure più complesse: è quindi fondamentale che un manager di una Pmi, che intenda inserirsi in una Gi, impari a rispettare i diversi ruoli aziendali, in quanto nelle aziende di maggiori dimensioni vi è una separazione molto più netta fra gli stessi. A tal fine, la cura delle relazioni organizzative deve essere molto attenta.
Al contrario, un manager che passi da una grande a una piccola impresa deve operare all’opposto e mettere in conto di dover gestire anche attività che non sono a tutti gli effetti di propria diretta competenza. In altri termini, deve assumere una logica interfunzionale, curare le relazioni interpersonali, essere sempre propositivo.
Dunque, fra manager di Pmi e di grande impresa un gap da colmare c’è e allora probabilmente non resta che fare affidamento sulla formazione. Però che questa sia al passo con i tempi: tecnica sì, ma non solo, relazionale sì, ma non solo, cognitiva sì, ma non solo.
Non è uno scioglilingua, anzi è una grande sfida da affrontare con un’iniziativa formativa innovativa che abbia l’obiettivo di rafforzare congiuntamente tutti i tre i tipi di competenze. E per riuscirci non può che essere effettuata sul campo, cioè con un approccio esperienziale, perseguito in laboratori dedicati presso le università stesse – per LIUC, i-IFAB docet – magari con sessioni presso le aziende stesse, cui partecipano preferibilmente manager provenienti da imprese di diverse dimensioni, per replicare la complessità e quei trade-off che anche la ricerca ha messo in luce.
Un’utopia? Con il supporto delle associazioni a individuare manager delle filiere, composte come noto da imprese di diverse dimensioni, tutto è possibile. Ed è così che forse un tris può diventare un colore vincente, anzi, ancora di più, una scala reale.