Dopo una lunga maratona negoziale cominciata venerdì mattina, che ha superato quella per il negoziato sul Trattato di Nizza, si è concluso ieri alle 6 il Consiglio europeo straordinario dedicato al Piano per la ripresa Next Generation EU (NGEU) e al Quadro Finanziario Pluriennale che ne rappresenta il pivot.
La proposta iniziale, presentata dalla Commissione europea il 27 maggio, prevedeva che la composizione di 750 miliardi di euro di Next Generation EU fosse suddivisa, in un rapporto 70%-30%, tra sovvenzioni a fondo perduto per 500 miliardi e prestiti per 250 miliardi.
Il compromesso raggiunto conferma l’ammontare di Next Generation EU a 750 miliardi ma ne modifica le proporzioni, sostanzialmente livellando l’ammontare delle sovvenzioni e dei prestiti, portandoli rispettivamente a 390 miliardi e 360 miliardi a prezzi 2018.
Viene rafforzata la Recovery and Resilience Facility, che aumenta il suo “volume di fuoco”, con il totale che passa da 560 miliardi (310 di sovvenzioni e 250 di prestiti) della proposta iniziale, a 672,5 miliardi (di cui 312,5 di sovvenzioni e 360 di prestiti).
Tuttavia l’aumento di 110 miliardi dei prestiti nel totale di Next Generation EU (da 250 a 360 miliardi) viene compensato da un taglio di uguale entità dei suoi finanziamenti a fondo perduto per gli altri programmi: i fondi di coesione di React EU passano da 50 a 47,5 miliardi; i fondi per la ricerca e sviluppo di Horizon Europe diminuiscono notevolmente da 13,5 a 5 miliardi; i finanziamenti per le imprese di Invest EU sono quasi azzerati, da 30,3 a soli 5,6 miliardi; viene azzerato del tutto il Solvency Support Instrument per il quale era prevista inizialmente una dotazione da 26 miliardi e che doveva servire a sostenere la ricapitalizzazione e la solvibilità delle imprese sane colpite dalla crisi del Covid-19.
Vengono poi dimezzati i fondi dello “Sviluppo rurale”, passando da 15 a 7,5 miliardi e ridotti di due terzi, da 30 a 10 miliardi, quelli per il Just Transition Fund; subisce una lieve diminuzione, da 2 a 1,9 miliardi il programma RescEU per il soccorso alle aree compite da calamità naturali e sanitarie; infine vengono cancellati i fondi Ndici per sostenere l’azione esterna, il vicinato e gli aiuti umanitari.
Secondo fonti del governo italiano, all’Italia andrebbero 208,8 miliardi di euro, di cui 81,4 a fondo perduto e 127, 4 sotto forma di prestiti. La proposta iniziale prevedeva 173,826 miliardi totali, di cui 85,242 di sussidi e 88,584 di prestiti. Un aumento di 34,974 miliardi, con un calo dei sussidi di 3,842 miliardi e un aumento dei prestiti di 38,816 miliardi. Praticamente, quasi come il MES ma senza il meccanismo di controllo del MES.
Nel Quadro finanziario pluriennale, leggermente ridotto rispetto alla proposta di febbraio, vengono aumentati gli sconti (i cosiddetti rebates) per i paesi già beneficiari e colpiti Programmi come HorizonEurope e Mercato Unico.
I temi più dibattuti al Consiglio europeo sono stati senza dubbio tre:
- le dimensioni del Recovery package, che i paesi “frugali” (Paesi Bassi, Austria, Danimarca, Svezia) e la Finlandia hanno proposto di ridurre, in particolare per quanto riguarda la componente a fondo perduto (“grants”);
- le modalità di gestione (la “governance”) della Recovery and Resilience Facility (RRF), ovvero dello strumento attraverso il quale passerebbe una quota consistente dei sussidi;
- la condizionalità legata al rispetto dello stato di diritto, seguita da quella per il raggiungimento della neutralità climatica.
Sull’ammontare, nonostante diversi tentativi di riduzione, si è riusciti a mantenere la dotazione.
Sulla governance della Recovery and Resilience Facility (RRF) si è invece giocata una partita politica durissima. La RRF nasce come un fondo a gestione diretta, con una governance molto rigida in cui la Commissione dovrebbe gestire gli stanziamenti agli Stati membri sulla base della verifica del raggiungimento degli obiettivi previsti dagli appositi piani nazionali, approvati dalla stessa Commissione e da una maggioranza qualificata di Stati membri.
Il governo olandese si è fermamente opposto a questo sistema dichiarando di “non fidarsi della Commissione”, ma la sua richiesta di un intervento del Consiglio europeo nella procedura di verifica dei piani nazionali e di un voto all’unanimità dei governi era giuridicamente e politicamente irricevibile: giuridicamente perché modificando sostanzialmente le competenze del Consiglio europeo ai danni della Commissione e del Parlamento europeo avrebbe richiesto una modifica dei Trattati; politicamente perché avrebbe attribuito un potere di veto a ciascuno Stato membro, con il rischio di bloccare il processo di erogazione dei fondi.
Per venire comunque incontro alle richieste olandesi, il presidente del Consiglio Michel ha proposto il cosiddetto “freno di emergenza”, che permette di fatto a qualsiasi paese di rallentare l’erogazione dei fondi: i Paesi Bassi potrebbero sollevare problemi sugli esborsi come arma elettorale (l’erogazione della prima tranche dovrebbe temporalmente più o meno coincidere con le elezioni olandesi).
Il tema sollevato da Rutte, in ogni caso, è sistemico. Il presunto scontro Conte-Rutte è servito a quest’ultimo e al primo ministro austriaco Kurz per sottolineare la volontà di sostituire l’asse franco-tedesco con uno “ibrido”, a geografie variabili, in cui anche i piccoli abbiano voce in capitolo.
Lo scontro tra “frugali” e Germania e Francia ha posto sulla bilancia insomma due visioni di Europa e di integrazione. E i paesi Visegrad, in questa bilancia, hanno svolto il ruolo di ago. Soprattutto sul tema delle condizionalità. Contrari a quella sul rispetto dello stato di diritto, sono stati di fatto accontentati con l’aggiunta di una serie di garanzie (come la possibile chiusura per l’Ungheria della procedura di infrazione entro il semestre), per evitare il rischio di far saltare l’accordo dopo aver corteggiato i “frugali”; contrari anche a quella legata agli obiettivi climatici, sono stati solo parzialmente ascoltati, con gli obiettivi confermati e rafforzati ma con maggiori garanzie sui criteri di allocazione dei fondi strutturali come forma di compensazione.
Credo che si possa dire che la Commissione europea esce sconfitta di questa maratona negoziale, mentre ne esce rafforzata la dimensione intergovernativa. L’Italia e i suoi alleati hanno sicuramente ottenuto un buon risultato sui fondi del Recovery, mentre per quanto riguarda il Quadro Finanziario Pluriennale lo scenario è diverso.
Va notato che i paesi “frugali”, che tutti insieme rappresentano poco più del 10% della popolazione dell’Unione, sono riusciti a condizionare scelte che riguardano tutti gli europei, in primis un ridimensionamento dei sussidi e il nuovo meccanismo del “super freno di emergenza” (super emergency brake), senza contare che hanno aumentato i rispettivi sconti/rebates sui contributi al Bilancio europeo. Mentre i paesi del fronte di Visegrad tengono sul fronte della Coesione e ottengono garanzie sulla Rule of Law.
Il saldo complessivo di questo negoziato ci consegna un’Unione più intergovernativa, in cui gli interessi nazionali continuano a condizionare l’interesse generale. Ne sono una prova la riduzione del bilancio europeo (sulla quale tuttavia non è detta ancora l’ultima parola), il rafforzamento dei rebates e il rinnovato protagonismo dei governi sulla governance a scapito della Commissione e del Parlamento europeo.
(Ha collaborato Cristina Scarfia)