“Perché l’Olanda? Perché in un momento in cui con la Brexit il Regno Unito sta perdendo appeal nel campo della formazione, l’Olanda si sta accreditando sempre più come un nuovo punto di riferimento. La scelta del fashion dipende dal fatto che la Luiss Business School non aveva ancora in portafoglio questo tipo di offerta. La moda è un settore trainante – basti pensare al “bello e ben fatto” made in Italy – e avere la possibilità di formare i nostri giovani all’estero è un’opportunità per tutto il Sistema”. Così Giovanni Brugnoli, presidente dell’Amsterdam Fashion Academy e vice presidente Confindustria con delega al Capitale umano, illustra i motivi che hanno spinto la Luiss Business School ad ampliare il proprio perimetro di azione costruendo, attraverso l’acquisizione dell’Amsterdam Fashion Academy, una base strategica all’estero che promette di essere molto attrattiva per gli studenti.
Quali profili professionali prepara l’Academy?
Ci sono due corsi: fashion design, più tecnico e orientato alle competenze creative, e fashion business, incentrato sul marketing e la comunicazione, oggi sempre più necessaria per emergere sui mercati. L’Academy ospita circa 200 allievi, provenienti da tutto il mondo, offre una formazione complementare a quella della Luiss Business School e, al termine degli studi, rilascia un Bachelor of Arts nel campo della moda e del lusso. Per gli studenti sicuramente un plus.
Seguiranno altre acquisizioni all’estero?
Questo è un primo esperimento e come tutte le prime volte ha un che di pionieristico, se vogliamo. Adesso la priorità è integrare l’Academy con il resto delle attività formative della Luiss Business School e con le federazioni di settore.
La formazione resta un tema di grande attualità. Qualcosa è cambiato?
Da parte nostra, come Confindustria, abbiamo certamente cambiato il linguaggio. Dire che nel tessile ci sarà bisogno di 40mila figure professionali nei prossimi tre anni o che nella meccanica ne serviranno 47mila o, ancora, che nei sei settori chiave – Ict, tessile, legno arredo, meccanica, chimica e alimentare – serviranno 205mila lavoratori nel triennio 2020/2022 ha un impatto emotivo molto diverso. Sia sulle famiglie che i ragazzi, le istituzioni, la scuola e tutti i soggetti a vario titolo coinvolti.
E queste sono cifre calcolate considerando che l’attuale crescita dell’Italia è dello “zero virgola”. Pensiamo a come questi numeri aumenterebbero se il Paese avesse una crescita dell’1%. D’altra parte, se siamo ancora il secondo paese manifatturiero d’Europa, è perché c’è ancora tanta industria.
Che, oggi come mai, ha bisogno di innovare costantemente. Come la mettiamo con chi non è nativo digitale?
L’impresa ha un ruolo sociale ben preciso. Da una parte dobbiamo stimolare la domanda di profili nuovi che spesso la scuola non forma, dall’altra dobbiamo avere la responsabilità morale e sociale di aggiornare le competenze di chi ha fatto grandi le nostre industrie. Non possiamo pensare di mandare via persone di 45/50 anni – e chi le parla è un cinquantenne – che da venti e più lavorano in azienda solo perché non sono nativi digitali. Abbiamo il compito di “riskillare”, mi passi il termine, le persone con i tanti strumenti a disposizione: fondi interprofessionali, academy aziendali, etc.
E chi ancora deve entrare nel mercato del lavoro?
Penso agli Its o, per andare proprio all’origine, all’alternanza scuola-lavoro. In tre anni siamo passati da 250mila giovani a un milione e mezzo all’interno delle nostre imprese. È stato anche per noi uno sforzo muscolare spiegare a tanti colleghi che avere un giovane in azienda che faceva “una buona alternanza” era un’opportunità. Ma è evidente che, con i cambi di governo e le continue modifiche sulle modalità operative, si fa fatica a continuare.
Parola d’ordine continuità, quindi?
Direi continuità, programmazione, visione del futuro. India, Stati Uniti, Germania hanno un piano ventennale sull’education. Per non parlare della Cina, che ha un programma fino al 2049 nei dieci settori merceologici strategici. Ma lì abbiamo un contesto diverso. Da noi basterebbe non cambiare sei ministri in quattro anni o fare tre tipi di esami di maturità differenti. Forse esageriamo un po’.