Betta Maggio, fondatrice U-earth
Betta Maggio, fondatrice di U-earth, azienda italo-svizzera che si occupa della purificazione dell’aria, racconta i dieci anni che hanno segnato le fortune di un progetto innovativo. Tecnologia che, attraverso un bioreattore brevettato, riesce a “digerire”, scomporre e infine distruggere i contaminanti aerei, senza poi avere il problema dello smaltimento delle relative scorie. Per il suo lavoro Maggio ha vinto molti premi, tra cui Gamma Donna 2017, e a luglio a Londra ha rappresentato l’imprenditoria femminile italiana, insieme ad altre due startupper, ad “Unbound 2018”, uno dei più prestigiosi festival dell’innovazione a livello mondiale.
Mettersi in proprio per una donna. Una sfida che lei è riuscita a vincere: ma con quali difficoltà?
Devo dire molte. Anche se penso non ci siano grandissime differenze tra i sessi quando si decide di entrare nel mondo del lavoro. Dalla mia esperienza ho capito che tutto è difficile, ma nulla è impossibile in questo nostro Paese. E credo che l’essere donna mi abbia anche agevolato nel settore in cui opera U-earth: ho potuto sfruttare tante occasioni per far guadagnare sufficiente visibilità all’azienda nonostante fossimo entrate in un contesto complicato e prettamente maschile. Spesso abbiamo sorpreso piacevolmente i nostri clienti quando ci siamo presentate per la prima volta davanti a loro. Dal laboratorio al mercato internazionale.
In che modo è riuscita a portare l’invenzione di suo zio nella vita di tutti i giorni?
È stata una grande soddisfazione riuscire a fare entrare questa nuova tecnologia in fabbriche, ospedali, uffici. Trovare aria pura nel luogo di lavoro fa piacere a tutti. Ma mentre il cittadino lo comprende appieno, altri interlocutori, se non sono proprio obbligati, ci spiegano di voler aspettare ancora un po’ prima di cambiare le cose. Con ambienti sempre più inquinati è necessario adottare soluzioni risolutive e i nostri macchinari svolgono la funzione di grandi piante capaci di creare zone d’aria pulita, con il potere purificante da 276 a 6mila alberi per ogni bio-reattore plug and play. E chi ha già utilizzato questo metodo innovativo, in grado di catturare e distruggere tutti i contaminanti aerei senza limite di granulometria e tipologia, non ne può più fare a meno. È come mangiare e bere in un modo in cui non si era mai fatto prima.
U-earth ha appena compiuto dieci anni. Come è cambiato il modo di operare della sua azienda biotech in questo periodo di tempo?
Il cambiamento, supportato dall’innovazione, è stato molto marcato. In partenza e fino a due anni fa eravamo una piccola Srl in cui si lavorava pancia a terra per trovare spazio in un ambito, quello green, che ha fame di soluzioni immediate. Supportati da argomentazioni scientifiche comunque molto complicate da far conoscere e comprendere. Nel 2017, finalmente, abbiamo tirato fuori la testa e a quel punto il mercato ha premiato i nostri sforzi. “Dove siete stati fino adesso”, ci hanno chiesto in molti. Siamo invitati dappertutto per parlare delle nostre soluzioni per la purificazione dell’aria, internazionalizzazione indispensabile per ogni azienda italiana che voglia distinguersi non solo all’interno dei nostri confini.
Una vita in prima linea spesso implica il fatto di dover pagare alti costi sociali. Qual è stato il ruolo della sua famiglia in questa impegnativa avventura lavorativa?
Non è stato sicuramente facile armonizzare la vita in famiglia con quella professionale. Prima che arrivassero i risultati, i miei figli chiedevano spesso se fossi sicura di quello che stavo facendo. Ho sempre cercato di lavorare il più possibile a casa, ma richiedeva comunque un impegno costante e pressoché totale. I bambini imparano dall’esempio più che da quello che dici loro e questo nostro modo di fare alla lunga ha pagato. Dalle scelte scolastiche e universitarie dei due più grandi, che ora hanno 19 e 21 anni, ho capito di aver fatto la scelta giusta tempo fa. Stanno seguendo le orme materne e spero che in seguito abbiano anche voglia di portare avanti la U-earth.
Come è stato lavorare e crescere professionalmente in un team che, soprattutto nei primi anni, era a grande maggioranza femminile?
Una scelta venuta naturalmente e tenendo conto che le donne dimostra- no maggiore resilienza in ambito lavorativo. Quando i risultati tardano ad arrivare in genere l’uomo si stanca, non segue più il progetto con la stessa attenzione dimostrata in precedenza. Noi, invece, andiamo dritto. “Ci sarà pure un’altra strada”, si domandava spesso quel team di donne, rimasto unito nelle difficoltà. Detto questo resto convinta che, per avere successo, non si possa pensare ad un’azienda di soli uomini o donne.