Nei giorni successivi allo scoppio della guerra, il 24 febbraio, l’invito alla pace e a interrompere subito le ostilità rimbalzava sui media. I servizi sulle drammatiche conseguenze del conflitto – vittime, profughi, bombardamenti – si contendevano lo spazio con le analisi geopolitiche. Questa fase più emotiva, se così si può definire, oggi sembra archiviata e a parlare di pace è rimasto solo Papa Francesco, insieme a pochi altri. Ne abbiamo discusso con Nathalie Tocci, direttore dell’Istituto Affari Internazionali, con cui abbiamo fatto il punto sui primi otto mesi di guerra.
È dunque così, nessuno cerca più una tregua o un accordo di pace?
Se per pace intendiamo un compromesso territoriale, dopo i massacri che sono avvenuti, alcuni dei quali probabilmente si scopriranno solo più avanti, temo che sia diventato impossibile. Le cose sono arrivate a un punto tale che pace, ovvero compromesso, e giustizia sono in totale contrapposizione. Chi andrebbe dagli ucraini a fare una simile proposta? Finché in Russia ci sarà questo regime non vedo possibilità di accordo. Ciò vuol dire che, anche in forme diverse, questa guerra continuerà.
In che fase ci troviamo?
C’è stata una prima fase segnata dall’invasione russa, animata dalla convinzione che l’Ucraina sarebbe crollata in poco tempo. Il paese invece ha resistito e questo ha fatto fallire l’idea che si sarebbe trattato di un blitz. La seconda fase ha visto la lenta ma inesorabile avanzata dei russi nell’est del paese, rafforzando la convinzione che, seppure non nelle forme immaginabili all’inizio, sarebbe stata una guerra vinta da Mosca. La terza fase comincia con la controffensiva dell’Ucraina, si ribaltano completamente i tavoli e per certi versi, per la Russia, oggi la guerra appare già persa. Ciò potrebbe preludere a una quarta fase, frutto della disperazione di una guerra che non può essere persa da Putin perché segnerebbe la sua fine politica. Ma in quest’ultimo caso i rischi di ciò che può accadere aumentano. Faccio un parallelo estremo, che però dà il senso di ciò che intendo dire: Hitler la guerra l’aveva già persa nel dicembre del ‘41, con l’invasione dell’Unione sovietica che non aveva dato i risultati sperati. Dal ‘41 al ‘45 però c’è stato l’Olocausto.
Quanto sono plausibili le minacce del presidente Putin rispetto all’uso delle armi nucleari?
Se per plausibili intendiamo logiche da un punto di vista strategico, la probabilità di utilizzare un’arma nucleare tattica, cioè a corta gittata, è zero. Dove verrebbero lanciate? Sul fronte? Colpirebbero forze armate ucraine ma anche russe, civili ucraini ma anche civili che con i referendum si apprestano a diventare russi. Potrebbe colpire Kiev? E in quel caso come reagirebbero gli altri paesi, a partire dagli Stati Uniti? Sappiamo che hanno annunciato “conseguenze catastrofiche” chiarendo al tempo stesso il ricorso ad armi convenzionali.
Se invece per plausibile non intendiamo logico e torniamo al concetto di disperazione, a fronte di una guerra persa, da parte della Russia un rischio c’è. Pertanto, la cosa più saggia da fare, a mio avviso, come Europa e come Occidente è perseverare con molta calma e pazienza in una politica che sta iniziando ad avere i suoi effetti, mantenendo un equilibrio fra il non provocare l’avversario e il sostenere l’aggredito. Non è una garanzia di successo, ma non vedo altre strade.
Come interpreta le proteste scoppiate in Russia contro il richiamo alle armi?
Sono sicuramente un indice di debolezza del regime, ma non dobbiamo giungere a conclusioni affrettate. Le proteste non si traducono automaticamente in rivoluzioni o in cambi di regime perché possono essere schiacciate con la repressione. In generale, non solo in Russia ma in ogni contesto che abbia caratteristiche autoritarie, è impossibile sapere cosa accada all’interno. A differenza delle liberaldemocrazie, dove il dissenso è in superficie, va su tv e giornali e fa parte, in un certo senso, di chi siamo, nei regimi autoritari è il contrario. Calma piatta fino a quando non si supera una certa soglia. Quale? Impossibile da definire. Quello che è chiaro è che il patto sociale che reggeva il regime di Putin si è rotto. Un patto che spiegava il perché la guerra venisse chiamata “operazione militare speciale”: non entrava in casa, non riguardava i cittadini. La mobilitazione rompe questo patto.
Che bilancio fa invece delle sanzioni economiche applicate dall’Ue nei confronti di Mosca?
Anche in questo caso è importante chiarire gli obiettivi. Se ci si aspettava che le sanzioni avrebbero messo in ginocchio il paese facendo cambiare idea a Putin, è chiaro che non sono state efficaci. Ma nel caso di sistemi autoritari e ideologici non c’è calcolo materiale che tenga. Fin dall’inizio l’obiettivo delle sanzioni è stato quello di ridurre la capacità di azione dell’avversario, cosa che ha tempi più lunghi. Un esempio? Le sanzioni tecnologiche si traducono in pezzi di ricambio che non arrivano, carri armati che non possono essere ricostruiti allo stesso modo o negli stessi tempi. Questo conduce a una riduzione delle capacità militari, che adesso cominciamo a vedere.
A proposito della crisi energetica, già in corso dal 2021 ma aggravata dal conflitto in corso, come valuta le mosse dell’Ue per affrancarsi dalla dipendenza dal gas russo?
Ci sono vari aspetti. Dal punto di vista della diversificazione delle fonti e tenuto conto che le politiche sul mix energetico sono nazionali, complessivamente ci si è mossi bene. L’Italia, per esempio, è stata veloce ed efficace con i vari accordi raggiunti con l’Algeria, l’Azerbaigian e altri. Bene in generale anche sul fronte degli stoccaggi, mentre sulla riduzione della domanda, a livello europeo, abbiamo iniziato a muoverci tardi, a luglio, e con misure piene di esenzioni e su base volontaria. Sulla questione del price cap osservo, invece, una resistenza di fondo ad accettare il fatto che il quadro sia cambiato. È come se ci fosse la convinzione istintiva che la Russia non taglierà completamente le forniture e che pertanto non bisogna provocarla ponendo un tetto al prezzo del gas.
Nel frattempo, l’Ungheria tiene un atteggiamento più favorevole a Mosca. Come dovrebbe comportarsi l’Ue?
Una premessa: proprio perché è un membro problematico è meglio che sia dentro l’Unione piuttosto che fuori, allo stesso modo della Turchia all’interno della Nato. A mio avviso l’Ue dovrebbe esercitare di più le forme di condizionalità interna di cui dispone, sostanzialmente leve economiche, così come sta facendo con la Polonia per le mancate riforme sulla giustizia.
Cosa pensa infine della posizione che la Cina ha mantenuto sul conflitto?
La sua è sempre stata una posizione ambivalente: politicamente più vicina alla Russia, mentre dal punto di vista economico è sempre stata molto attenta per il timore di imbattersi nelle sanzioni secondarie americane. A mano a mano che la guerra procede nessuno vuole scommettere sul cavallo perdente e la Cina ha manifestato subito le proprie preoccupazioni sull’ipotesi dell’arma nucleare.
La Cina ha troppo da perdere nel rovinare le relazioni con Usa e Ue?
Sì, e noi con loro. Siamo in un mondo conflittuale, politicamente giochiamo in due squadre avversarie, ma l’interdipendenza economica ci sarà sempre e occorre trovare un equilibrio fra sicurezza ed efficienza. È vero, l’ordine liberale internazionale in cui abbiamo creduto non esiste più, ma non siamo nemmeno all’altro estremo, nel quale democrazie e autocrazie non interagiscono. Non torneremo ad un assetto da Guerra Fredda, per intenderci. Questo è impossibile.
(Articolo pubblicato sul numero di ottobre dell’Imprenditore)
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